venerdì 27 febbraio 2015

Inferno, Canto X. Galeotto fu un passato remoto


Procediamo con Dante e Virgilio attraverso un secreto calle che si insinua tra i sepolcri scoperchiati dove si consumano tra le fiamme gli eretici, o meglio la loro anima. Ricetta teologica: far rosolare a fuoco lento per benino l'anima sotto il coperchio, quindi aggiungere il corpo solo a fine cottura (leggasi: resurrezione della carne).
L'idea religiosa di Dante va affinando i suoi contorni: i dannati (qui i cosiddetti epicurei, che come Epicuro si davano alle libagioni perchè "del doman non c'è certezza") sono privi di sostanza corporea ma hanno intatte le percezioni sensoriali; serbano vivi e dolorosi ricordi della loro vita, conservando pure le passioni che li hanno portati alla condanna; hanno una visione sfocata sugli accadimenti futuri (Dante raccoglie infatti alcune profezie lungo il suo cammino), mentre sono del tutto ignari del presente storico dei viventi.
Esemplare in questo senso l'episodio che vede coinvolti due dannati "doc", Farinata degli Uberti e il signor Cavalcante dei Cavalcanti, padre del celebre poeta Guido. Siamo alle prese con l'ennesimo colloquio di Dante con un'anima "selezionata", funzionale all'esposizione del Dante-pensiero lungo la narrazione. Mentre discorre con Virgilio, Dante viene trattenuto dalla voce di qualcuno che ne ha riconosciuto l' inconfondibile accento (O Tosco che vai per la città del foco... la tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria...); è Farinata degli Uberti, il cui nome ci risuona famigliare dal dialogo con Ciacco nel Canto VI. Egli è ghibellino, quindi avverso ai guelfi Aligheri, ma in fondo si tratta per Dante di un "nemico nobile", sul quale infatti non si accanisce come fece nel penoso incontro allo Stige con Filippo Argenti.
I due si mettono a parlare di politica e zac! si avvicina il tipico "vecchietto con le mani dietro la schiena". Questi sembra guardare alle spalle di Dante, come a cercar qualcuno (Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s’altri era meco). E' il signor Cavalcanti, padre del poeta, il quale non si capacita di come non ci possa essere pure suo figlio insieme a Dante: Se per questo cieco carcere vai per l'altezza d'ingegno, mio figlio ov'è? Ah, questi padri adoranti, i quali non vedono altro che i meriti dei loro figli: non fanno tenerezza? Qui avviene un equivoco che – come abbiamo visto in altre situazioni – sconfina nel faceto; papà Cavalcanti fraintende drammaticamente la risposta di Dante. Galeotto fu un passato remoto.
Il poeta infatti parla di Guido usando un innocuo "ebbe", e il vecchierello subito stracapisce: "Come? Dicesti "elli ebbe"? Non viv'elli ancora? Non fiere li occhi suoi lo dolce lume?". Dante resta un attimo spiazzato, e la sua incertezza nel rispondere "Ma no, macchè, guarda che hai capito male oh" causa lo svenimento istantaneo del dietrologico vecchio (supin ricadde e più non parve fora). A mantenere comica la situazione è la estrema disinvoltura del Farinata, il quale "non mutò aspetto, nè mosse collo, nè piegò sua costa", ovvero per dirla in romanesco nun je poteva fregà de meno. Poi Dante, sentendosi in colpa, chiederà a Farinata di rassicurare il vecchio Cavalcanti spiegandogli l'equivoco.
Il Canto si chiude con l'ennesimo sursum corda virgiliano al querulo Dante, sempre più prostrato e angosciato per il suo futuro; Virgilio gli promette che saprà qualcosa quando incontrerà Beatrice.
Quindi, proseguendo il loro viaggio concentrico, i due si ritrovano sull'orlo di una valle da dove sale un tremendo puzzo...

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