martedì 10 febbraio 2015

I tabù, il tempo, la malinconia

CHE FILM, QUEI FILM (consigli di visione, tre per volta)
[n.02]

Ecco un altro magnifico trio di film che vi consiglio di tutto cuore. Tre pellicole che hanno ben poco in comune, se non un fondo di magica bellezza. Meglio, no? L' eterogeneità dei temi trattati è ulteriore garanzia per una visione del bello non seriale e quindi non ripetitiva.

L'âge d'or (1930)

Dopo lo choc culturale sortito dal suo corto d'esordio, Un chien andalou, Buñuel affonda il colpo. Si avventa con rabbia giovanile contro la Morale occidentale, religiosa e convenzionale, con un lungometraggio irto di simboli che rimandano alla psicanalisi, stracciando ogni logica temporale. Ogni fotogramma ha il suo significato ma si presta a più d'uno, come giustamente fa notare - non senza una goccia di sarcasmo - la critica "dizionaria".

L'incipit ci porta a un'isola brulla, rocciosa, in un covo di briganti straccioni e malfermi che intendono accogliere ad armi spianate una processione di "maiorcani" - ufficiali, preti, notabili - sbarcata per rendere omaggio agli scheletri di arcivescovi e "benedire" una specie di piccolo altare di pietra. Durante il rito, una coppia viene separata da un amplesso animale nel fango.
Da questo momento, l'uomo viene separato suo malgrado dalla donna e viene portato a Roma (l'altarino si rivelerà essere la pietra fondante dell'Urbe) da una coppia di gendarmi in borghese. Nel percorso di ricongiungimento di queste due "anime carnali", culminante nella scena erotica più famosa del film in cui una espressiva Lya Lys succhia voluttuosamente l'alluce di una statua, assistiamo a una serie sconclusionata di immagini tutte da decifrare. Si può ad ogni modo cogliere al fondo di tutto l'intento dissacratorio di Buñuel, che mette in scena ostensori in taxi, papi che volano dalla finestra, ma anche un cagnolino preso a calci, un cieco buttato brutalmente a terra, una donna schiaffeggiata e un bimbo steso a colpi di fucile per un innocuo dispetto. Scombussolare la platea, questa la missione artistica del regista spagnolo; che non è appunto una missione "sociale", in quanto il mezzo traumatizzante è l'Arte, senza le briglie di una qualsivoglia etica, attenta alla comunicazione di corpi (l'andatura sciancata ed esausta dei briganti, l'energia erotica degli abbracci tra i due protagonisti nel giardino) che si muovono in un ricchissimo assortimento simbologico (qui sarebbe inutile fare esempi, il film ne è pregno; ma basti pensare a come da un documentario sugli scorpioni Buñuel approdi senza apparente soluzione di continuità ad una storia di esseri umani...).
Il finale, estremamente enigmatico, ci porta ad un impervio castello dove un mefistofelico Duca di Blangis ha appena concluso una terribile orgia violenta; dal castello lo stesso esce con le oltraggiose fattezze di un Cristo disorientato e afflitto. 

Mezzogiorno di fuoco (High noon, 1952)

Il vero protagonista è il tempo, scandito da un orologio a pendolo, che inesorabilmente ci conduce verso il "mezzogiorno di fuoco" in un efficace crescendo di tensione.
Il bianco e nero di Floyd Crosby è luminoso, accende i contrasti a rimarcare lo zenit solare.
E poi c'è l'espressione tesa di Gary Cooper, con la sua mitica riga in parte, gli occhi inquieti e profondi, i solchi lungo le guance e il labbro inferiore leggermente sporgente; quel viso è una icona immortale del cinema sulla quale giustamente si sofferma la cinepresa di Zinnemann, una vera scultura michelangiolesca.
Tutti gli altri - vili, indifferenti o impotenti al dramma dello sceriffo - sfigurano davanti al personaggio gigantesco e umano di Cooper; dal "giovincello col distintivo" Lloyd Bridges alla sensuale Jurado, fino alla principesca Grace Kelly che pur si rivaluta nel finale, sono tutti piccoli satelliti attorno alla grande stella.
Immortale la colonna sonora, con quelle percussioni stantuffanti e il riff cantabile "Do not forsake me oh my darling".

L'ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971)

Le storie struggenti dell'America dal dopoguerra fino ai sixties, devo ammetterlo, mi affascinano da sempre. Ma laddove sussulto per semplici confezioni "vintage" come il bellissimo "American Graffiti", o il più recente e tenero "Stand by me", davanti a capolavori come questo di Bogdanovich mi sento mancare il fiato. Non c'è infatti il solo sospiroso effetto melancholy - il vento che spazza una cittadina desolata, piccole sale biliardo mal riscaldate, la radio, il drive-in, le infinite monotone highways americane, l'ultima proiezione di un vecchio cinema da cui il titolo del film - ma anche un ingrediente segreto, magico, il gioco raffinato e dosato con l'elemento surreale proprio di un Fellini (Ia scena della piscina al Country Club, molto felliniana), la ferocia nascosta delle relazioni umane che straripa nella letteratura americana del 900, come pure in pregevoli recenti prodotti della TV (osservando bene la magnifica Ellen Burstyn può venir in mente una certa Bree di Wisteria Lane). Quella malinconia brutale di un gruppo di tipici texani incapaci di commuoversi davanti al cadavere di un "idiota".
Ottimo il consiglio di Welles all'amico Bogdanovich di girarlo in bianco e nero. La sequenza iniziale e quella finale coincidono, come a ricordarci che tutto è un ciclo. C'è un Jeff Bridges alle prime armi, una Cybill Shepard splendente ragazza annoiata, e poi c'è una grande Cloris Leachman (Frau Blücher!) casalinga depressa e fedifraga, meritatissimo premio Oscar.

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