[n.03]
Un altro bel tris d'assi, per un magnifico weekend all'insegna del Grande Cinema; vista la concomitanza con la cerimonia degli Oscar, eccovi tre "best movies" del passato.
Buona visione.
Aurora (Sunrise: A Song of Two Humans, 1927)
Ad "Aurora" il primo Oscar della storia, conferito nel 1929 |
Quando si sente dire la parola "espressionismo" si può pensare a
inaccessibili filoni della cultura cinematografica, per la quale è
necessario lo studio matto e disperatissimo, il papillon, l'occhialino
tondo e l'alzata di sopracciglio. L'espressione di un viso è quanto di
più naturale esista al mondo; il cinema di Murnau, certo più figlio del
teatro di quanto lo siano registi moderni, ricerca ossessivamente
l'impatto di occhi e volto dell'attore sul pubblico, l'estetica di un
sorriso etereo femminile o l'aria minacciosa di uno sguardo belluino da
invasato. Dalla naturalezza dell'espressione viene creato dunque l'
artificio dell'ismo; da questa esasperazione artistica Murnau trae la "creta" per modellare un capolavoro come Sunrise - A song of two humans, dove gli occhi sono protagonisti.
L'ambientazione coglie l'annosa dicotomia tra il bucolico, onesto e naturale humus della campagna, ed il cupo, corrotto e caotico spirito della città; il soggetto di Aurora è semplice e antico come la storia del giardino dell'Eden, dove al posto del serpente troviamo la donna ammaliatrice e perversa (stupenda Margaret Livingston, che danza un sabba vertiginoso ed erotico al chiaro di luna, e in un'altra scena scopre perfino spalla e schiena... nel 1927!!!).
La vicenda però non è così lineare come potrebbe sembrare; il titolo infatti punta chiaramente al trionfale disciogliersi delle tenebre, l'aurora redentrice e luminosa, ma per giungere all' approdo di un rassicurante happy ending lo spettatore deve essere provato dalla corda tesa della tragedia. I due "umani" della storia, marito e moglie, non passano per una semplice "crisetta", diciamo così (e non dico altro per risparmiarvi spoiler). Il percorso di riunificazione di due anime - per quanto sintetizzato 'artisticamente' nell' arco di tempo di un giorno e una notte - deve risanare un momento di gelida follia, e non sarà facile...
C'è spazio anche per l'ilarità che suscita la goffaggine campagnola della coppia immersa nel caos della città; grandiose le scene al salone del parrucchiere e al luna park, dove scoprirete la gioia segreta di guardare il primo piano di un maialino ubriaco.
L'ambientazione coglie l'annosa dicotomia tra il bucolico, onesto e naturale humus della campagna, ed il cupo, corrotto e caotico spirito della città; il soggetto di Aurora è semplice e antico come la storia del giardino dell'Eden, dove al posto del serpente troviamo la donna ammaliatrice e perversa (stupenda Margaret Livingston, che danza un sabba vertiginoso ed erotico al chiaro di luna, e in un'altra scena scopre perfino spalla e schiena... nel 1927!!!).
La vicenda però non è così lineare come potrebbe sembrare; il titolo infatti punta chiaramente al trionfale disciogliersi delle tenebre, l'aurora redentrice e luminosa, ma per giungere all' approdo di un rassicurante happy ending lo spettatore deve essere provato dalla corda tesa della tragedia. I due "umani" della storia, marito e moglie, non passano per una semplice "crisetta", diciamo così (e non dico altro per risparmiarvi spoiler). Il percorso di riunificazione di due anime - per quanto sintetizzato 'artisticamente' nell' arco di tempo di un giorno e una notte - deve risanare un momento di gelida follia, e non sarà facile...
C'è spazio anche per l'ilarità che suscita la goffaggine campagnola della coppia immersa nel caos della città; grandiose le scene al salone del parrucchiere e al luna park, dove scoprirete la gioia segreta di guardare il primo piano di un maialino ubriaco.
Com'era verde la mia valle (How green was my valley, 1941)
Ford pesca a piene mani dal vecchio romanzone di Llewellyn (che oggi
campeggia ingiallito in ogni bancarella o robivecchi che si rispetti,
fossile di un best-selling d'altri tempi) mettendo in scena la tragedia
dei minatori gallesi a inizio secolo, in un mondo che volgeva verso
l'industrializzazione spietata delle riduzioni salariali e dal
licenziamento facile. Una fotografia nitida ed un cast di buoni attori
dalla ciancicante parlata gallese (stendiamo un velo pietoso sul
ridicolo doppiaggio italiano simil-meridionale, da taluni perfino
celebrato...); bella e toccante la tormentata storia d'amore tra il
pastore Gruffydd (Walter Pidgeon) e la giovane Angharad (Maureen
O'Hara). Straordinario Donald Crisp nei panni del padre-patriarca, gran
lavoratore, ferrea dignità e carattere, pezzo d' onestuomo.
I migliori anni della nostra vita (The best years of our lives, 1946)
Questo film di Oscar ne vinse 7, tra cui la miglior regia a Wyler |
L'interpretazione più toccante è quella riservata ad Harold Russell, attore non professionista e vero reduce di guerra, del quale noi italiani non possiamo non riconoscere subito l'inconfondibile, roco e romantico doppiaggio di Ferruccio Amendola. Egli è Homer, un marinaio che torna con due uncini al posto delle mani, e per quanto si sforzi di apparire normale nelle piccole cose quotidiane, soffre perchè non può accarezzare la sua amata...
Di gran spicco, a mio avviso, la prova delle attrici; un ruolo che richiede allo spettatore d'oggi lo sforzo minimo di immedesimazione nello spirito "americanamente virile" di quegli anni, tenendo per un attimo da parte il patrimonio di emancipazione femminile addivenire. La donna che scarrozza il marito a bere per i locali e lo mette a letto ubriaco sfatto, la figliola che studia con profitto amministrazione domestica; l'unico spirito libero risulta quello di Virginia Mayo, personaggio ovviamente negativo e adulterino, splendida nella sua figura da principessa del night. Ma al di là di queste doverose puntualizzazioni 'sociologiche', l'austera dolcezza di Myrna Loy rimane intatta, così come la tenerezza giovanile di Teresa Wright o l'intensa determinazione nuziale di Cathy O'Donnell, che intende sposare l'uomo che ama anche se mutilato. Da brividi le sequenze finali; a parte il solito ed inevitabile lieto fine romanzato, è impressionante la scelta di Wyler di tenere la telecamera impietosamente fissa sulle mani degli sposi, in una cerimonia dove le mani hanno un ruolo predominante (lo scambio degli anelli, il prete che chiede di prendere la mano dello sposo per il giuramento). E' un pezzo da antologia del cinema, se non da antologia del sentimento, quello vero, che si fa spazio anche nel doloroso e nel grottesco.
Nessun commento:
Posta un commento