martedì 31 marzo 2015

Inferno, Canto XIII. Uomini fummo, e or siam fatti sterpi


Giungiamo, al di là del Flegetonte, in un fitto bosco di alberi spinosi e intricati dalle foglie scure dove nidificano le terrificanti Arpie. Virgilio ricorda a Dante che si tratta del secondo girone infernale; dopo una breve spiegazione, si instaura fra i due per un attimo quel "silenzio carico", terreno fertile per il gioco delle dietrologie efficacemente descritto nel verso: "Cred’io ch’ei credette ch’io credesse". "Credo che Virgilio credesse che io credessi"; mi ricorda molto quei dialoghi da cameretta tra compagne di classe del liceo, in quelle strabilianti impalcature di supposizioni e congetture che gli animi pensanti e fragili sanno tirare su.
Ebbene in questo bosco triste si odono di continuo lamenti, ma non è chiaro da dove essi giungano. Un po' come Alice nel Paese delle Meraviglie, che non si rende subito conto che sono i fiori a parlare, Dante vine invitato dal suo maestro a strappare un rametto per capire. Metodo ben poco ortodosso, potremmo dire; il povero arbusto si trova a sanguinare e giustamente recriminare per questo gesto di crudeltà gratuita. Da che fatto fu poi di sangue bruno ricominciò a dir: "Perchè mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb'esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi".
Questo incontro con l'anima di Pier della Vigna, consigliere suicida di Federico II di Svevia, mi fa riflettere sul tema particolare della pietas dei due viaggiatori nei confronti dei dannati. Virgilio spesso appare parecchio più smagato, forse anche perchè lui stesso è in fin dei conti confinato eternamente nel limbo. Il vivente Dante, ancora preda delle sue passioni, raramente ha tirato fuori la sua rabbia (vedi l'episodio di Filippo Argenti) mentre il più delle volte viene mosso a commozione e pietà. In questo caso soffre perfino dei sensi di colpa per quello che a prima vista sembra un "tranello" un po' bastardo di Virgilio; lo stratagemma dello strappo infatti, spiegherà poi Virgilio, è l'unico modo per conversare con quell'anima dannata, altrimenti reclusa nel silenzio. Questo espediente mi pare intrecciarsi molto bene con un brano sapienziale: "Chi punge un occhio lo farà lacrimare, chi punge un cuore ne scopre il sentimento". E' necessario "far sanguinare" un po' il cuore altrui per farlo aprire, l'eccesso di tatto a volte assomiglia più all'indifferenza. Allo stesso modo, Dante stesso non avrebbe compreso le sofferenze dell'umano sterpo senza questo minimo atto di "violenza", per cui Virgilio lo indusse suo malgrado: Ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
Pier della Vigna viene invitato a presentarsi, manifestando il suo "caso"; egli teneva ambo le chiavi del cor di Federico II, ne conosceva tutti i segreti, al punto da suscitare l' invidia degli altri cortigiani secondo un copione storico già visto in ogni epoca (La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio). Fu così che il fedele e innocente consigliere fu trascinato nel fango, e scelse la morte suicida per disdegnoso gusto.
La ferita del ramo si va ormai cicatrizzando, il sangue rapprendendo, e Virgilio sprona Dante a fargli altre domande per non perder l'ora. Dante però è talmente scosso che declina delegando ancora il suo vate (Domandal tu ancora....ch'i non potrei, tanta pietà m'accora).
Virgilio chiede allora a Pier della Vigna una spiegazione dell'iter di inarbustimento delle anime dei suicidi; quando l'anima si stacca dal corpo, Minosse l'acciuffa e la spedisce nel settimo cerchio dove essa, come un seme portato dal vento, trova uno spazio dove attecchire nella selva. Crescendo poi mettono su fogliame, il quale attira le Arpie che causano dolore strappando le foglie.
Anche questi poveracci della mesta selva riceveranno il loro corpo il giorno della resurrezione della carne, ma non potranno rivestirsene (chè non è giusto aver ciò ch'om si toglie) e lo terranno impiccato come un triste stendardo, ciascuno al prun de l'ombra sua molesta.
A interrompere questa simpatica silvana visione (azz!) giunge il latrato di una muta di cani lanciata all'inseguimento di due anime ignude, graffiate e affannate. Sono gli scialacquatori. Uno dei due si nasconde dietro a un cespuglio, e qui viene sbranato dalle bestiacce. Questo "siparietto" horror serve a introdurre il cespuglio, il quale resta anonimo ma svela con una perifrasi il suo essere fiorentino: "I' fui de la città che nel Batista mutò il primo padrone; ond'ei per questo sempre con l'arte sua la farà trista", alludendo al fatto che Firenze cambiò patrono da Marte a Giovanni Battista, e Marte per ripicca la rattristerà per sempre con l'arte sua, la guerra. Questo fiorentino dice di sè: Io fei gibetto a me delle mie case, dove per gibetto si intende la forca (dal francese gibet); una impiccagione avvenuta in casa, gesto di estrema desolazione, è l' immagine che chiude con mestizia questo tredicesimo Canto.


Che cosa ci siam lasciati alle spalle:

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