Giungiamo, al di là del Flegetonte, in un fitto bosco di alberi spinosi e intricati dalle foglie scure dove nidificano le terrificanti Arpie. Virgilio ricorda a Dante che si tratta del secondo girone infernale; dopo una breve spiegazione, si instaura fra i due per un attimo quel "silenzio carico", terreno fertile per il gioco delle dietrologie efficacemente descritto nel verso: "Cred’io ch’ei credette ch’io credesse". "Credo che Virgilio credesse che io credessi"; mi ricorda molto quei dialoghi da cameretta tra compagne di classe del liceo, in quelle strabilianti impalcature di supposizioni e congetture che gli animi pensanti e fragili sanno tirare su.
Ebbene in
questo bosco triste si odono di continuo lamenti, ma non è chiaro da
dove essi giungano. Un po' come Alice nel Paese delle Meraviglie, che
non si rende subito conto che sono i fiori a parlare, Dante vine
invitato dal suo maestro a strappare un rametto per capire. Metodo
ben poco ortodosso, potremmo dire; il povero arbusto si trova a
sanguinare e giustamente recriminare per questo gesto di crudeltà
gratuita. Da che fatto fu poi di sangue bruno ricominciò a dir:
"Perchè mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini
fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi".
Questo incontro con l'anima di Pier della Vigna, consigliere suicida
di Federico II di Svevia, mi fa riflettere sul tema particolare della
pietas dei due viaggiatori nei confronti dei dannati. Virgilio spesso
appare parecchio più smagato, forse anche perchè lui stesso è in
fin dei conti confinato eternamente nel limbo. Il vivente Dante,
ancora preda delle sue passioni, raramente ha tirato fuori la sua
rabbia (vedi l'episodio di Filippo Argenti) mentre il più delle
volte viene mosso a commozione e pietà. In questo caso soffre
perfino dei sensi di colpa per quello che a prima vista sembra un
"tranello" un po' bastardo di Virgilio; lo stratagemma
dello strappo infatti, spiegherà poi Virgilio, è l'unico modo per
conversare con quell'anima dannata, altrimenti reclusa nel silenzio.
Questo espediente mi pare intrecciarsi molto bene con un brano
sapienziale: "Chi punge un occhio lo farà lacrimare, chi punge
un cuore ne scopre il sentimento". E' necessario "far
sanguinare" un po' il cuore altrui per farlo aprire, l'eccesso
di tatto a volte assomiglia più all'indifferenza. Allo stesso modo,
Dante stesso non avrebbe compreso le sofferenze dell'umano sterpo
senza questo minimo atto di "violenza", per cui Virgilio lo
indusse suo malgrado: Ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad
ovra ch'a me stesso pesa.
Pier della Vigna viene invitato a presentarsi, manifestando il suo
"caso"; egli teneva ambo le chiavi del cor di
Federico II, ne conosceva tutti i segreti, al punto da suscitare l'
invidia degli altri cortigiani secondo un copione storico già visto
in ogni epoca (La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non
torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio). Fu
così che il fedele e innocente consigliere fu trascinato nel fango,
e scelse la morte suicida per disdegnoso gusto.
La ferita del ramo si va ormai cicatrizzando, il sangue rapprendendo,
e Virgilio sprona Dante a fargli altre domande per non perder
l'ora. Dante però è talmente scosso che declina delegando
ancora il suo vate (Domandal tu ancora....ch'i non potrei, tanta
pietà m'accora).
Virgilio chiede allora a Pier della Vigna una spiegazione dell'iter
di inarbustimento delle anime dei suicidi; quando l'anima si stacca
dal corpo, Minosse l'acciuffa e la spedisce nel settimo cerchio dove
essa, come un seme portato dal vento, trova uno spazio dove
attecchire nella selva. Crescendo poi mettono su fogliame, il quale
attira le Arpie che causano dolore strappando le foglie.
Anche questi poveracci della mesta selva riceveranno il loro
corpo il giorno della resurrezione della carne, ma non potranno
rivestirsene (chè non è giusto aver ciò ch'om si toglie) e
lo terranno impiccato come un triste stendardo, ciascuno al prun
de l'ombra sua molesta.
A interrompere questa simpatica silvana visione (azz!) giunge il
latrato di una muta di cani lanciata all'inseguimento di due anime
ignude, graffiate e affannate. Sono gli scialacquatori. Uno dei due
si nasconde dietro a un cespuglio, e qui viene sbranato dalle
bestiacce. Questo "siparietto" horror serve a introdurre il
cespuglio, il quale resta anonimo ma svela con una perifrasi il suo
essere fiorentino: "I' fui de la città che nel Batista mutò
il primo padrone; ond'ei per questo sempre con l'arte sua la farà
trista", alludendo al fatto che Firenze cambiò patrono da
Marte a Giovanni Battista, e Marte per ripicca la rattristerà per
sempre con l'arte sua, la guerra. Questo fiorentino dice di
sè: Io fei gibetto a me delle mie case, dove per gibetto si
intende la forca (dal francese gibet); una impiccagione
avvenuta in casa, gesto di estrema desolazione, è l' immagine che
chiude con mestizia questo tredicesimo Canto.
Che cosa ci siam lasciati alle spalle:
Canto I: L'Altro Viaggio
Canto II: L'impedito nella piaggia diserta
Canto III: Dentro a le segrete cose
Canto IV: Il castello dalle sette mura
Canto V: Francesca e Paolo
Canto VI: Da Cerbero a Pluto
Canto VII: Paperone, Rockerduck e la rissa ai fanghi termali
Canto VIII: Due bulli sullo Stige
Canto IX: Coriandoli e marionette
Canto X: Galeotto fu un passato remoto
Canto XI: Tristo fiato e bucce di banana filosofiche
Canto II: L'impedito nella piaggia diserta
Canto III: Dentro a le segrete cose
Canto IV: Il castello dalle sette mura
Canto V: Francesca e Paolo
Canto VI: Da Cerbero a Pluto
Canto VII: Paperone, Rockerduck e la rissa ai fanghi termali
Canto VIII: Due bulli sullo Stige
Canto IX: Coriandoli e marionette
Canto X: Galeotto fu un passato remoto
Canto XI: Tristo fiato e bucce di banana filosofiche
Canto XII: Mistiche frane e mitologiche finestre
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