70. Aurora (1927) di Friedrich W. Murnau
L'espressione di un viso è quanto
di più naturale esista al mondo; il cinema di Murnau, certo più figlio del
teatro di quanto lo siano registi moderni, ricerca ossessivamente l'impatto di
occhi e volto dell'attore sul pubblico, l'estetica di un sorriso etereo
femminile o l'aria minacciosa di uno sguardo belluino da invasato. Dalla
naturalezza dell'espressione viene creato dunque l'artificio dell'ismo;
da questa esasperazione artistica Murnau trae la "creta" per
modellare un capolavoro come Sunrise - A song of two humans, dove gli
occhi sono protagonisti. L'ambientazione coglie l'annosa dicotomia tra il
bucolico, onesto e naturale humus della campagna, ed il cupo, corrotto e
caotico spirito della città; il soggetto di Aurora è semplice e antico come la
storia del giardino dell'Eden, dove al posto del serpente troviamo la donna
ammaliatrice e perversa (stupenda Margaret Livingston, che danza un sabba vertiginoso
ed erotico al chiaro di luna). La vicenda però non è così lineare come potrebbe
sembrare; il titolo infatti punta chiaramente al trionfale disciogliersi delle
tenebre, l'aurora redentrice e luminosa, ma per giungere all' approdo di un
rassicurante happy ending lo spettatore deve essere provato dalla corda tesa
della tragedia. I due "umani" della storia, marito e moglie, non
passano per una semplice "crisetta", diciamo così (e non dico altro
per risparmiarvi spoiler). Il percorso di riunificazione di due anime - per
quanto sintetizzato 'artisticamente' nell' arco di tempo di un giorno e una
notte - deve risanare un momento di gelida follia, e non sarà facile... C'è
spazio anche per l'ilarità che suscita la goffaggine campagnola della coppia
immersa nel caos della città; grandiose le scene al salone del parrucchiere e
al luna park, con tanto di primo piano su un maialino ubriaco.
69. Les enfants du Paradis (1945) di Marcel Carné
Monumentale film del tardo
realismo poetico in sospeso tra commedia romantica, pantomima e tragedia,
girato in pieno periodo di occupazione nazista tra Parigi e Nizza. Una folle
danza dell'amore, dove gli amanti girano in tondo come i cavalli del circo,
senza prendersi mai. Un amore che qui a volte appare quasi come una forma di
egoismo; che tu sia una donna angelicata o l'uomo dei sogni, hai le sembianze
della mia dolorosa speranza, in cui non c'è spazio per ciò che realmente
sei. Tutto ruota attorno all'ammaliante Garance, interpretata da una già matura
Arletty, irriverente diva francese celebre per la sua liaison con un ufficiale
della Luftwaffe durante l'occupazione, per cui fu arrestata e brevemente
incarcerata; in quell'occasione dichiarò con sarcasmo: "mon coeur est
français mais mon cul est international". Capito il personaggio?
Lo spasimante è il mimo Baptiste interpretato da Jean-Louis Barrault, maestro del teatro totale, dalla gestualità e dalle espressioni semplicemente magiche. Personaggio che comunque risulta irritante nella sua testarda infatuazione. Tra gli antagonisti il migliore è senza dubbio l'attore viveur Frédérik, un effervescente Pierre Brasseur, autentico padrone del palcoscenico specie in un bellissimo piano sequenza dove "vilipende l'opera drammatica" di tre autori improvvisando un metateatro farsesco che ovviamente manda in visibilio il loggione (o piccionaia, che in francese è appunto definito "paradis" da cui il titolo). Per Woody Allen questo è il miglior film della storia del cinema, per i francesi è il miglior film francese della storia. Insomma, la grandeur c'è eccome; poi c'è da dire che a carnevale ognuno sceglie la maschera che più gli aggrada, è naturale. L'importante è che reperiate l'edizione integrale francese (3 ore) e non vi limitiate a quella triturata dalla solita macelleria editoriale italiana (un'ora e mezza).
Lo spasimante è il mimo Baptiste interpretato da Jean-Louis Barrault, maestro del teatro totale, dalla gestualità e dalle espressioni semplicemente magiche. Personaggio che comunque risulta irritante nella sua testarda infatuazione. Tra gli antagonisti il migliore è senza dubbio l'attore viveur Frédérik, un effervescente Pierre Brasseur, autentico padrone del palcoscenico specie in un bellissimo piano sequenza dove "vilipende l'opera drammatica" di tre autori improvvisando un metateatro farsesco che ovviamente manda in visibilio il loggione (o piccionaia, che in francese è appunto definito "paradis" da cui il titolo). Per Woody Allen questo è il miglior film della storia del cinema, per i francesi è il miglior film francese della storia. Insomma, la grandeur c'è eccome; poi c'è da dire che a carnevale ognuno sceglie la maschera che più gli aggrada, è naturale. L'importante è che reperiate l'edizione integrale francese (3 ore) e non vi limitiate a quella triturata dalla solita macelleria editoriale italiana (un'ora e mezza).
68. Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (1972) di Sidney Pollack
Film stupendo, una grande
sinfonia su pellicola. E così lo costruisce Pollack, partendo da una vera e
propria overture; l’incipit è una
suggestiva foto delle Montagne Rocciose e un allegro-maestoso in stile country
composto da Tom McIntire e John Rubinstein. La storia di Jeremiah Johnson è
avvincente, regala splendidi paesaggi innevati e un affresco delicato e
selvaggio delle popolazioni injun. Robert Redford è al picco più alto
della sua onorata carriera, e incarna il prototipo del trapper solitario stanco
delle città e delle guerre (tratto dalla storia vera di Liver-Eating Johnson),
che ha spalancato un meraviglioso mondo immaginario ai fumetti (vedi ad esempio
Ken Parker) ed altre forme tra finzione e realtà, raccontando queste drastiche scelte
di vita selvaggia. Will Greer nei panni del vecchio Bear-Claw è uno spasso che non
si può davvero perdere.
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