64. I protagonisti (1992) di Robert Altman
Vi risparmierò le solite
lamentele sul tisico mercato home video riservato al geniale Altman, o
sull'assurdità della traduzione di certi titoli. Ciò che conta è che questo The
Player ve lo potete vedere in lingua originale per gustare l'inventiva e la
grandezza di questo regista, unico nella sua capacità di assemblare con grazia
una folta schiera di stelle hollywoodiane, dando loro un guizzo di luce, un
frame, due battute poco più. E lasciando lo spettatore avviluppato nel torbido
di una trama da thriller psicologico che perlustra i gangli oscuri della
produzione, mettendo in luce particolarmente lo scontro tra scrittura e
mercato, ammiccando insistentemente ai grandi film tra locandine, citazioni e
paralleli. Una visione parossistica che punta il dito contro la produzione
blockbuster dove gli ingredienti sono sempre quelli, e vengono indicati
chiaramente dal protagonista, il produttore esecutivo Mill: Suspense,
laughter, violence, hope, heart, nudity, sex, and happy endings, mainly happy
endings. Il protagonista, appunto, è il miglior Tim Robbins dopo Shawshank
Redemption, col suo viso liscio e il suo sguardo glaciale da enfant maudit.
Giustamente passato alla storia il lunghissimo piano sequenza iniziale, che
omaggia tra gli altri il meraviglioso Touch of Evil di Welles.
63. L’ultimo metrò (1980) di François Truffaut
Voilà uno dei migliori film di
Truffaut, calibrato come la palla di biliardo sul panno verde. Il cinema che
racconta il teatro, un'operazione che mi affascina per le numerose implicazioni
sceniche che comporta; come recentemente è accaduto con il bellissimo Birdman
di Iñárritu, segui la storia dei personaggi in un continuum tra il palco
e il dietro le quinte, che spesso si fondono magicamente. Un dietro le quinte
che diventa un "sotto" le quinte, la cantina del teatro 'Montmartre'
dove si nasconde e opera segretamente il regista ebreo Steiner, deus ex machina
clandestino nella Francia occupata interpretato da un perfetto Heinz Bennent.
Una storia che coinvolge e si dispiega con originalità tra colori brillanti,
dove primeggiano la charmante Catherine Deneuve e un esuberante Gérard
Depardieu, in cui Parigi è fasulla e magica come un fondale, tutta la luce si
concentra negli interni tra palco, poltrone, tendaggi, scale. Tutto è recita,
con applauso finale liberatorio.
62. Il vaso di Pandora (1929) di Georg W. Pabst
Storia nera a sfondo erotico
dalla trama complessa, sviluppata però con straordinario nitore da quel genio
di Pabst. Il regista, al contrario delle fantasmagorie di Murnau, pare
saldamente ancorato con i piedi a terra, concede poche sfumature, nessuna
sequenza onirica. Un eccezionale gioco di espressioni attorno ad una delle
eroine più sexy del cinema muto, Louise Brooks, dallo sguardo magnetico e
l'intensa carica sensuale. Lulù non è una vera dark-lady, essendo fondamentalmente
frivola e ingenua; ma danza consapevolmente sulla linea d'ombra, gioca con il
peccato e la seduzione, ama sinceramente e liberamente, senza farsi imbrigliare
dal bigottismo maschilista del suo tempo. Ed è per questo che attira a sè gli
istinti più belluini e sopraffattori degli uomini, così come la passione -
saffica e materna - dell'amica Geschwitz. "Tutti vogliono il mio sangue.
La mia vita", confida al vecchio fauno Schilgolch, suo "tutore"
non immune da bramosie nei suo confronti. Il male la conquista passo per passo,
in un incessante sabba che le sconvolge i sensi, spingendola più giù negli
abissi della perdizione, per finire nelle spire di una Londra tetra e fumosa,
splendidamente in contrasto con i festeggiamenti natalizi che percorrono le sue
strade. Una perla del cinema muto, da non perdere davvero.
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