67. A
better life (2011) di Chris Weitz
Ci sono film che sono in grado di
liberare l'emozione più nascosta, non con trucchetti sentimentalistici da
quattro soldi, ma con la durezza di una storia raccontata in maniera esemplare.
La bellissima e ferma mano registica di Chris Weitz (che già apprezzai nel
tremendamente sottovalutato 'La bussola d'oro'), la fotografia strepitosa di
Aguirresarobe (The Road, Blue Jasmine), le musiche di Desplat
(compositore tra gli altri di Wes Anderson e Garrone) e di grandi cantautori
messicani come Antonio Aguilar (gran bella sequenza in auto sulle note di
"Carta Perdida") si coagulano in un mix perfetto capace di far
vibrare le corde del cuore.
Questo "Ladri di biciclette" in salsa chicana è davvero un piccolo gioiello, ingiustamente scivolato nel dimenticatoio; forse ci sono un paio di svirgole sulla sceneggiatura nei momenti topici della ricerca (tipo: se rubi un cellulare non lo lasci mica acceso e con la scheda originaria...), ma passano via senza colpo ferire.
Demiàn Bichir è straordinario (meritatamente candidato all'Oscar nel 2011), mi è piaciuto anche il giovane José Julian.
Questo "Ladri di biciclette" in salsa chicana è davvero un piccolo gioiello, ingiustamente scivolato nel dimenticatoio; forse ci sono un paio di svirgole sulla sceneggiatura nei momenti topici della ricerca (tipo: se rubi un cellulare non lo lasci mica acceso e con la scheda originaria...), ma passano via senza colpo ferire.
Demiàn Bichir è straordinario (meritatamente candidato all'Oscar nel 2011), mi è piaciuto anche il giovane José Julian.
66. C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone
C'è quel ripetitivo, forse anche
un po' estenuante refrain di archi che illanguidisce l'anima. Cosa sarebbe
Sergio Leone senza Ennio Morricone, mi son chiesto talvolta; e probabilmente la
forza evocatica di film come questo sta proprio nell'inscindibilità di questo
tandem. I film di Leone sono innanzitutto trionfo del suono e della musica. Una
banda di criminali in erba che sbuca giovane e ribelle dal ghetto ebraico di
New York, una gangster story che è un revival delle vecchie gloriose pellicole
sugli anni del Proibizionismo catturata, fotogramma per fotogramma, dall'
occhio attento di Leone che sfoggia interni preziosi e barocchi, panorami suburbani
ricchissimi di dettagli, comparse disposte con arte e dovizia di particolari.
Una storia profondamente virile, macchè diciamo pure turpemente maschilista,
violenta e irredenta dove tra i duri DeNiro e Woods sfilano pupe con timidi
abbozzi di personalità e gli antartici sguardi della McGovern, fanali di un
azzurro alieno che cromaticamente ricordano un certo Straniero. Molto efficace
la stratificazione dei piani temporali (in tre epoche ed età diverse dei
personaggi), su cui Leone gioca con estrema coerenza per portarci ad un finale
a sorpresa. Con "C'era una volta in America" Leone chiude una
trilogia, quella denominata del "Tempo", che a onor del vero non ha
proprio nessun nesso tra le pellicole se non appunto la sequenzialità
temporale. C'è sempre stato - e sempre ci sarà - un annoso dibattito sul reale
valore di questo regista; sono in tanti ad abbaiare contro la luna, compresi alcuni
eminenti critici, per me sparano a salve.
65. Ombre rosse (1939) di John Ford
Grande western, ma direi
grandissimo film al di là del genere. Una straordinaria fuga dalla 'Lega per la
moralità', una rivincita epica di prostitute e alcolizzati sul beghinismo
americano (e siamo nel 1939...) quando John Wayne non era ancora un massone e
un'icona repubblicana. Commovente nella sua dolce pacatezza Claire Trevor, nei
panni della prosituta Dallas, affilato e signorile John Carradine (il giocatore
gentiluomo e sudista Hatfield). La regia di John Ford è un trattato cristallino
di cinematografia, per lo spettatore colto come per quello semplicemente
curioso ed appassionato.
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