lunedì 26 ottobre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 43 al n. 41)


43. Barton Fink (1991) di J. e E. Coen


Una delle più strabilianti follie uscite dalla odd couple dei Coen, innovatori del cinema americano. Questo 'Barton Fink' sfida con sfrontatezza tutte le regole dello scripturally correct., regalandoci uno dei colpi di scena più incredibili partendo dal banale ronzio di una zanzara in una squallida camera d'albergo. Tra l'altro, che albergo: il cupo, malinconico, 'lynchiano' Hotel Earle si può definire un degno parente dell'Overlook di Shining. Rimango estasiato dalla straripante verve scenica di John Goodman negli anni '90, un attore eccezionale.

42. Big Fish (2003) di T. Burton


Film di una delicatezza, di una poesia e di una magia incredibili, che arriva dritto al cuore e narra della grandezza della finzione, della indiscutibile e inossidabile supremazia della fantasia sulla fredda e grigia realtà. Non dovete fare altro che guardarlo e riguardarlo, per tornare a sognare. Indimenticabile Albert Finney.

41. Il massacro di Fort Apache (1948) di J. Ford


Il cinema di Ford è essenzialmente frontiera e geometria. C'è l'epica, con la sua retorica marziale e il suo inconfondibile sapore di sangue ed avventura, e attorno a tutto questo gira il compasso di John Ford, regista amante del Classico, del romantico, abitudinario quanto a cast (vedi gli attori feticcio Wayne, Fonda, Bond, O'Brien), tutto concentrato nella storia che vuole raccontare, per cui la tecnica cinematografica è a servizio. Se volete dire al mondo che John Ford è un genio, ditelo piano, sussurratelo, non perchè non lo sia, ma semplicemente perchè l'inflazione attorno al termine "genio" oggi mette sotto l'occhio di bue i registi che sorprendono, scioccano, infrangono le regole. Lui, quanto a digressioni, si concede al massimo l'inserto di una pomposa danza di ufficiali sulle note della marcia di San Patrizio (con un Henry Fonda eccezionale ballerino!). La Grandezza discreta di Ford; è facile “inventarsi” la genialità davanti alla sregolatezza, è più difficile ma più prezioso scovarla nella geometria più semplice. Io amo John Ford. Il che non significa necessariamente nascondersi dietro ad un cespuglio e sparare a vista su quanti contraddicono la sua grandezza trionfalmente americana, squisitamente hollywoodiana. Amare John Ford è per me tornare al divano di una casa, accanto al mio vecchio, e scoprire con gioia che l'ennesimo western in onda "sulle private" è un Ford. Oggi so in anteprima cosa sto per vedere, allora no, allora era una scoperta del momento.
Io amo John Ford perchè ha portato a spasso la mia fantasia per un bel pezzo della mia vita, e sta continuando a farlo anche ora che mi spuntano i primi peli bianchi sulla barba. Ora, tornando al film, considerate un attimo il rude John Wayne. Avete presente i suoi film, no?  Generalmente, lui è il film, punto. La pellicola gli gira attorno. E adesso guardatelo qui, in questo Fort Apache; come al solito onest'uomo, tutto d'un pezzo, impavido. Ok, ma non un purosangue lanciato a mille in una prateria, bensì un grosso cavallo domato e imbrigliato. Il suo capitano Yorke non disubbidisce mai, la sua energia eroica viene costantemente repressa dalla ferrea e cieca disciplina imposta dal colonnello Thursday, uno straordinario, abbottonato e altezzoso Henry Fonda. Voglio dire: Ford in questo film è riuscito a maneggiare la dirompenza di Wayne, sellarlo come non mai, e l'effetto è grandioso. Il prototipo di eroe western generalmente scombina i piani dei villain, qui invece soggiace - per onore dell'arma - alle logiche assurde del suo superiore, le ingoia e le digerisce fino al punto di mitizzarlo dopo la morte. Spendo un'ultima parola sui magnifici comprimari che fanno parte del cast; su tutti, Ward Bond, una faccia da vecchio puglie, un fisico da lottatore, due occhi bovini e quel felice binomio attoriale che unisce la prestanza fisica alla bontà di cuore, l'assoluta onestà al linguaggio schietto. Un po' come il Donald Crisp di "Com'era verde la mia valle". Di una paternità forte, cristallina, intimamente dolce.

giovedì 22 ottobre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 46 al n. 44)

46. L’ultimo spettacolo (1971) di Peter Bogdanovich


Le storie struggenti dell'America vintage, devo ammetterlo, mi affascinano da sempre. Ma laddove sussulto per semplici confezioni colorate come il bellissimo "American Graffiti", o il più recente e tenero "Stand by me", davanti a capolavori come questo di Bogdanovich mi sento mancare il fiato. Non c'è infatti il solo sospiroso effetto "melancholy" - il vento che spazza una cittadina desolata, piccole sale biliardo mal riscaldate, la radio, il drive-in, le infinite monotone highways americane, l'ultima proiezione di un vecchio cinema da cui il titolo del film - ma anche un ingrediente segreto, magico, il gioco raffinato e dosato con l'elemento surreale proprio di un Fellini (Ia scena della piscina al Country Club, molto felliniana), la ferocia nascosta delle relazioni umane che straripa nella letteratura americana del 900, come pure in pregevoli prodotti della TV (guardate bene la magnifica Ellen Burstyn; non vi ricorda una certa Bree di Wisteria Lane?). Quella malinconia brutale di un gruppo di tipici redneck texani incapaci di commuoversi davanti al cadavere di un "idiota".
Ottimo il consiglio di Welles all'amico Bogdanovich di girarlo in bianco e nero. La sequenza iniziale e quella finale coincidono, come a ricordarci che tutto è un ciclo. C'è un Jeff Bridges alle prime armi, una Cybill Shepard splendente ragazza annoiata, e poi c'è una grande Cloris Leachman (la Frau Blücher! di Frankenstein Jr.) casalinga depressa e fedifraga, meritatissimo premio Oscar.
45. La donna fantasma (1944) di Robert Siodmak


Quando un soggetto di atmosfera e meccanismi perfetti, firmato da Cornell Woolrich uno dei maestri del crime thriller americano, incontra la regia minuziosa e raffinata dell'espressionista Robert Siodmak, nasce un capolavoro che trascende i confini del genere. Una pellicola tanto preziosa quanto malamente trascurata dalla fiera dei best of. E dal suo cantuccio del dimenticatoio questo noir perlaceo emana luce come pochi altri, grazie anche alle maiuscole interpretazioni della bella e spumeggiante Ella Raines e del glaciale Franchot Tone, stelle ormai impietosamente sbiadite nel firmamento hollywoodiano. Siodmak "arreda" ogni scenario con grazia e cura del dettaglio, inquadra con ricchezza e profondità, infonde la giusta tensione in sequenze memorabili come il pedinamento del losco barman da parte della segretaria Kansas, improvvisatasi detective per amore.

44. Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica


Il neorealismo di De Sica dipinge la Roma del dopoguerra con tratti vivaci e grezzi, pescando tra la gente e non negli actor's studios, eppure senza perdere un grammo di classe. "Il mio scopo è rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso della piccola cronaca, anzi, della piccolissima cronaca", disse il regista di Sora. E proprio di piccolissima cronaca tratta questo bellissimo ritratto di popolino romanaccio, fatto di furtarelli e trattorie, messe dei poveri e monte dei pegni. E come tristemente spesso accade, pure un piccolissimo fatterello di cronaca rischia di rovinare una vita intera...

lunedì 19 ottobre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n.49 al n.47)

49. Captain Phillips (2013) di Paul Greengrass

Alta tensione e suspense fino alla fine. Un film d'azione condotto con maestria, superiore ai livelli medi del genere perché più intelligente e meno muscolare. I pirati somali, l'equipaggio e i navy seals sono assolutamente verosimili, Tom Hanks poi è davvero superlativo. Non c’è molto da aggiungere se non: guardatevelo, vi terrà incollati alla sedia per due ore e più.

48. Il grande Lebowski (1998) di Joel e Ethan Coen


Gli anni Novanta hanno sfornato tonnellate di blockbusters, ma nel pelago del mediocre entertainment si sono fatti strada titoli destinati all'eternità. Uno di questi è l'esilarante Lebowski dei Coen, ambientato nel sottobosco umano della California più suburbana, tra pigri e panciuti campioni del fancazzismo. Vestiti sciattamente (come dimenticare quelle scarpette da mare in gomma beige), dotati di una proprietà lessicale da bignami del sussidiario elementare (con punte paradossali di perle filosofiche), Lebowski e i suoi strampalati amici del bowling vengono risucchiati in un tipico plot da racconto hard-boiled, dove l'avvenente bionda moglie del milionario scompare e l'alcolico improvvisato "detective" privato di turno si mette in qualche modo (anzi, viene messo suo malgrado) sulle sue tracce. Rivedere questo film è un atto gioioso. Forse di quel Turturro in completo rosa, di quel Buscemi classico idiota o di quel lacchè di un Seymour Hoffman ne avevi a suo tempo ingigantito la portata umoristica, e col senno di poi li trovi un po' meno brillanti. Ma Jeff Bridges resta un irresistibile fumatissimo sbandato, e John Goodman - oh-my-God! John Goodman! - riguardatevelo con quei braghini, quei calzini e quegli occhialoni sotto al taglio da marine, quale magnifico, colossale personaggio è uscito da quelle trippe! Un mostro di comicità, isteria, tenerezza. Adorabile. Un po' come accadde per Blues Brothers, 'Il grande Lebowski' è sempre stato considerato un cult-movie; le scene che sono rimaste nel mito sono quelle lisergiche, quei trip assurdi che ricordano gli elefanti rosa di Dumbo, nonchè ogni gag o situazione che sottolineasse lo scazzo allo stato larvale del protagonista. A quarant'anni magari passa la voglia di identificarsi con lo sbandatone giuggiolone, e forse ci si può gustare con più attenzione le piccole meraviglie disseminate dai Coen lungo la pellicola. Sì, certamente un mito, ma anche e soprattutto un magnifico film, coloratissima parodia delle detective stories losangeline.

47. Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen


Forse il più maturo dei film di Allen, sicuramente tra i più intensi. Alterna gag spumeggianti a piccole gemme di drammaticità, in un equilibrio perfetto. La coralità del trio di sorelle garantisce tre magnifiche sponde per esplorare vita coniugale, tradimenti e insuccessi; ad esse si accompagnano la più riuscita interpretazione dell'ipocondriaco Woody e la flemma britannica, con rari e contenuti eccessi di temperamento, di un ottimo Michael Caine. Soprattutto, qui straborda il genio dietro alla cinepresa. Le inquadrature si sono raffinate raggiungendo il vertiginoso grado "oltre la perfezione", superiore perfino al bianconero laccato di Manhattan, un po' grazie anche al tocco magico di un colore freddo e piovoso. Eppure, nonostante l'aura di perfezione (chissà, forse proprio per questo!) continuo a preferirgli il più scanzonato Radio Days.
C'è una forza struggente negli standard suonati al piano dal vecchio genitore, un attempato Lloyd Nolan alla sua ultima interpretazione.