lunedì 30 novembre 2015

Inferno, Canto XXV. Le metamorfosi

Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo; così Dante bolla il terribile Fucci, reo di aver fatto un ingiurioso gestaccio indirizzandolo al Creatore stesso. Ovviamente non è passata indolore neanche la bastardata del Canto precedente, dove predicendo al poeta l’esilio il perfido pistoiese rincarava con una sorta di ‘ben ti sta’; ecco dunque che il buon Dante tira fuori tutta la scorta del suo veleno e lo sputa maledicendo l’intera città di Pistoia: Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d’incenerarti sì che più non duri, poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi? Siamo ancora nella bolgia dei ladri, dove le creature punitrici sono - non a caso – le serpi. Ci sono bisce aggrovigliate e sibilanti ovunque, anche in groppa al centauro Caco che galoppa furioso con un drago dietro la nuca in cerca del peccatore riottoso.  Tre spiriti si avvicinano a Virgilio e Dante chiedendo: “Chi siete voi?”; manifesteranno nel prosieguo del Canto le proprie identità (come suol seguitar per alcun caso) nominandosi vicendevolmente. Essi rappresentano l’occasione per un prodigioso esercizio di stile dantesco, nel dipingere a tinte scure una terrificante scena che viene preannunciata da calibrate parole di suspense: Se tu sé or, lettore, a creder lento ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, ché io ‘l vidi, a pena il mi consento. Un serpente a sei piedi – iconografia ricorrente quella di mettere le zampe ai serpenti, come a rimarcare questa mancante dotazione naturale, quasi un problema di rappresentazione – aggredisce uno dei tre peccatori, gli si avvinghia in tutto il corpo mordendogli le guance. La descrizione in versi di questa sorta di fusione tra serpe e uomo è davvero impressionante; gli arti superiori avvinti alle braccia, quelli centrali al ventre, quelli inferiori alle cosce e la coda passando tra le gambe finisce per allacciarsi alla schiena.  Nemmeno l’edera non fu mai così avviticchiata ad un albero. Poi s’appiccar, come di calda cera fossero stati; avviene questa fusione delle due materie corporee, questa mescolanza di colori che ricorda il brunirsi della carta innanzi da l’ardore, non ancora carbonizzata. I due aspetti fusi insieme generano una creatura mostruosa – due e nessun l’immagine perversa parea – che al termine della mutazione se ne va via mestamente, con lento passo.
Dante e Virgilio assistono ora ad una seconda metamorfosi; un serpentello nero come gran di pepe si avventa fulmineo sull’ombelico di uno dei due restanti dannati, ovvero sul luogo fisico del primo legame materno onde prima è preso nostro alimento. Il trafitto non mostra alcuna istintiva reazione di spavento, ma sbadiglia come sonno o febbre l’assalisse; anima e serpente si guardano e tra di essi viene a formarsi una cortina di fumo. Taccia Lucano… Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio… Dante gonfia un po’ il petto davanti ai Classici che prima di lui hanno affrontato il tema della metamorfosi, al fine di cucinare a puntino l’attenzione del lettore, e procede con una sontuosa descrizione dello scambio di materia tra le due nature.
Laddove al serpente inizia a biforcarsi la coda, all’uomo iniziano a unirsi gli arti inferiori; laddove al serpente si allunga un paio di braccia, queste all’uomo si ritraggono fin dentro le ascelle e così via, in un percorso visivo parallelo di umanizzazione del serpente e "serpentizzazione" dell’uomo.   

lunedì 23 novembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 28 al n. 26)

28. Dies irae (1943) di Carl T. Dreyer

Fuori dalle buie segrete, dove una povera vecchia ha appena finito di gridare, la telecamera indugia tre le fronde e le alte volte degli alberi; un amore skandaløs sta sbocciando mentre l'abominio dell'inquisizione sta mietendo un'altra vittima innocente. Il crepitare di un rogo, l'incessante scampanìo, il volto triste della bionda incuffiata Anne che scruta da una finestrella. Croci, croci, croci e una processione di neri ministri di una sinistra religione, un coro di voci bianche. La flebile luce del Cantico dei Cantici prova a farsi spazio nella caligine di una religiosità sessuofoba. Ma la passione si pietrifica, la feroce condanna è inevitabile.
Non c'è miglior aggettivo per questo film che "danese"; freddo come un mattino nebbioso, duro come i volti nordici nei loro austeri colletti.

27. Radio America (2006) di Robert Altman

L'uscita di scena di uno dei più grandi registi di sempre, salutato da un cast eccezionale. Malinconia, humour, un pizzico di mistero e tanta buona musica per un amoroso canto a madre Radio. Altman riusciva a estrarre il meglio da ogni attore, ed è per questo motivo che i suoi film corali sono passati alla storia; qui le regine della scena sono Meryl Streep e Lily Tomlin, ma guardate (e ascoltate!) quanto è bravo Garrison Keillor, storico conduttore radiofonico. Brillante il duo country formato da Woody Harrelson e J.C. Reilly, spumeggiante come sempre Kevin Kline.

26. Il fascino discreto della borghesia (1972) di Luis Buñuel

Capolavoro grottesco e surreale, danza leggero tra realtà e sogno e affonda i suoi artigli sulla delicata pelle di una borghesia cinica e forbita. Bunuel ci racconta la sua storia chiazzandola di tanto in tanto con improvvise bizzarrie, fughe dal verosimile nella cornice di uno stile sequenziale, sobrio e ordinato. Sono questi lampi paradossali a dare una luce incredibilmente vivida al film, aprendo gli occhi dello spettatore sulla vacua inconcludenza di una classe sociale dal frigo pieno, arroccata nella sua ipocrita etichetta. Impennate dell'assurdo, raptus di violenza inopportuna che sviscerano l'anima nera nascosta in sontuosi ricevimenti, graziosi aperitivi e case impeccabili. Ogni spiegazione a soprusi e falsità viene sempre ironicamente coperta da un rumore di fondo; il traffico, il rombo di un aereo, il ticchettare delle macchine da scrivere, tutti effetti sonori curati peraltro curiosamente da Bunuel in persona. Il regista ci vuol far capire quanto siamo sordi all'ingiustizia di classe. I pasti non vengono mai portati a compimento, ma ciò che conta in fondo sono i corretti abbinamenti, la giusta preparazione di un martini-dry o come si taglia il cosciotto. E la vita di questi fortunati fannulloni scorre tutta uguale, a passi spediti lungo una strada senza fine, circondata dal nulla.
Molto bravi gli attori, in special modo Fernando Rey, ma nel cinema del genio spagnolo contano più le immagini, sequenze memorabili come quelle del militare nella città dei morti o le cene oniriche a casa del colonnello.

giovedì 19 novembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 31 al n. 29)

31. Quasi famosi (2000) di Cameron Crowe

Un Crowe davvero ispirato ha colto pienamente lo spirito degli anni crepuscolari del rock in una commedia divertente e coloratissima. Kate Hudson è un angelo in stato di grazia; impossibile non intenerirsi del suo personaggio, riesce a trasmettere dolcezza perfino mentre sta vomitando nella vasca da bagno sulle note di My cherie amour. Ottimo Seymour Hoffman nei panni di Lester Bangs, ogni sua battuta sarebbe da incorniciare. Eccezionale Frances McDormand nei panni di una madre che non è la classica "casalinga in grembiule": paranoica ma in fondo dolce, aggressiva quando ce n'è bisogno, con i figli ne sbaglia una dietro l'altra, donna di cultura (insegnante) ma con un forte tabù sul mondo rock e le sue degenerazioni che la spingono ad essere ridicola. Fugace la meteora di Patrick Fugit, nei panni del giovane giornalista rock, ad oggi più o meno non pervenuto nello star system.

30. The Departed (2006) di Martin Scorsese

Una storia di infiltrati che va stratificandosi, e ad ogni strato lo spettatore prende una posizione diversa sullo stesso personaggio: "E' dei buoni? O è dei cattivi?". Fino ad un finale ricco di colpi di scena (e di revolver).
Il cinema contemporaneo, lo sappiamo, ha ormai da tempo abdicato alla netta e disneyana divisione tra hero e villain, e nell'ampio registro di queste sfumature si inserisce come un meccanismo ad orologeria questa suprema opera di Scorsese. Una perfetta combinazione di azione ed intreccio, la trama fila dritta come un treno e l'adrenalina è costantemente a mille. La tracklist dei commenti musicali, come in generale tutto il gioco dei suoni è una goduria; il montaggio è davvero da Oscar, ogni tessera del mosaico è un colpo di genio.
Jack Nicholson e Di Caprio spaccano di brutto. Scorsese è una garanzia.

29. Insider – Dentro la verità (1999) di Michael Mann

Stupendo film che scruta i meccanismi del giornalismo d'inchiesta con le tinte fosche del thriller psicologico, seguendo il solco del Quinto Potere di Lumet. Mann è un eccezionale narratore ma allo stesso tempo un esteta della settima arte; la sua peculiarità sta nel dare a un racconto essenziale e sincopato scenari di gran magnetismo, un laboratorio continuo di luce e colore, cercando sempre un leggero contrasto di originalità, dalle angolature della camera ai sottofondi musicali. Al Pacino qui è semplicemente immenso. Il suo reporter Lowell Bergman manda in frantumi i pixel dello schermo, non si può contenere nei canoni di una interpretazione; i suoi occhi sono puro cinema, la sua voce è puro cinema (dategli ogni tanto la grazia di potervi parlare senza doppiaggio), tutto parla di un uomo, non di un attore alle prese con la sua parte. Praticamente un miracolo di transustanziazione cinematografica. Grandiosi anche Christopher Plummer, che ha la difficoltà in più di un ruolo ambiguo, e il paranoico Russel Crowe, la cui carriera nel mainstream non gli ha impedito di dimostrare che con il cinema di classe ci sa fare.

mercoledì 11 novembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 34 al n. 32)

34. American Gangster (2007) di Ridley Scott


Una gangster story serrata e avvincente, con un cast sontuoso, che ci immerge negli ambienti malavitosi degli anni settanta con un taglio parzialmente scorsesiano. Qui Ridley Scott ha tirato su la testa dalla lunga apnea dopo i colpi magici di Blade Runner e Alien, montando su una classica perfetta pulp machine dove il marcio si estende al di là del mondo del crimine. Denzel Washington è grandioso e crudele nonostante la dolcezza dei tratti, Russel Crowe è in stato di grazia, ma è tutto il cast a danzare al ritmo giusto. Parte strepitosa per John Ortiz, quasi un caratterista del poliziottesco all'italiana. Colonna sonora black soul e funky ovviamente da capogiro.

33. 8 ½ (1963) di Federico Fellini


Quando hai finito la visione di questo film ti ritrovi a frugare nella valigia dei tuoi migliori aggettivi, ma non trovi nulla di adatto. Trovi ogni parola datata, usata, scialba. Ti accorgi finalmente di come la critica non sia onnipotente e onnicomprensiva; ti rendi conto della nebbia mistica, quel confine che separa ciò che sta da una parte e ciò che sta dall'altra dello schermo, e di quanto sia illusorio pensare di poter setacciare ogni cosa dell'arte, perchè alcune cose sfuggono ai tuoi poveri mezzi. E' come provare a prendere un'anguilla con le mani bagnate, scivola via guizzante e più viva che mai. Fellini mette in connessione sogno, ricordo e visione, ha quella intuizione vitale, accende quella sacra fiamma a cui guardiamo ipnotizzati in trance. Ci nutre di bellezza eterna il solo catalogo della sua straripante, variegata, originale umanità, che affastella primi piani di visi strani, grotteschi, popolari, circensi. La sola istanza demitizzante arriva forse dall'impianto dialogico, così tremendamente nouvelle vague, babelicamente snob, un lavoro di ordito del fido Flaiano e la sua penna spudorata (ma se questo è il limite, signori miei, di cosa vogliamo parlare noi tastieristi da pausa caffè...).
Dopo l’inevitabile intontimento post visione si può solo cercare di ricollezionare le sequenze che restano marchiate nella mente; l'abbacinante visione collettiva alle fonti dell'acqua santa, le schermaglie di carnalità tra Mastroianni e la Milo, il ballo sulla spiaggia della selvaggia gigantesca Saraghina, il sogno androcentrico del protagonista servito dalle donne della sua vita, il finale con la consueta atmosfera da luna park di periferia, tra desolazione e luci del varietà.

32. Quinto potere (1976) di Sidney Lumet


Geniale, a suo modo poetica e distruttiva visione del mondo dell'immagine da parte di Sidney Lumet. L'amore non riesce a circolare in un ambiente vacuo, condannato a soffrire per la sua freddezza, ogni emozione, ogni passione ideale, religiosa, ogni valore viene stravolto, gestito, modellato a piacere e ridotto a indici e percentuali. Cast fantastico, nel quale spiccano il "pazzo profeta dell'etere" Peter Finch e soprattutto il rude flemmatico William Holden, uno sguardo che trapassa l'inquadratura. Si nota un linguaggio singolarmente ricercato nei dialoghi, ampolloso perfino negli scambi di battute veloci, ma sospetto sia una infiorettatura del doppiaggio. Finale reciso e spietato, forse un po' troppo sopra le righe ma efficace.

lunedì 9 novembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 37 al n. 35)



37. Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah


Epico western, tra generosi zampilli di sangue e musica mariachi. Il manipolo guidato dall'impassibile William Holden è sostanzialmente un gruppo di falliti, che trova il riscatto finale nell'estremo sacrificio, naturalmente affogato in un bagno di sangue da guinness dei primati. Nell'annoso confronto con il western di Leone, Peckinpah ha dalla sua la verosimiglianza e soprattutto l'azione, laddove invece non raggiunge - a mio avviso - la poesia e l'ironia del regista italiano. Eppure sotto la scorza della spietatezza anche i suoi eroi hanno un fascino crepuscolare, più asciutto ma ugualmente struggente. Non è un paese per vecchi? Oh, sì, eccome se lo è! Holden e Borgnine avranno anche la pelle avvizzita, ma la vendono cara, molto cara.

36. Baby Doll (1956) di Elia Kazan


Incantevole ambientazione dixie per questa black comedy di Kazan tratta dalla penna amara di Tennessee Williams, una sorta di prototipo lolitesco. Una carica erotica che non sfuggì ovviamente alla stolidissima Legion of Decency, tratteggiata invece con garbo e stupefacente delicatezza dal regista in sequenze memorabili come il lungo dialogo di seduzione tra i campi e la "casa stregata". Si può percepire nella recitazione il famoso "metodo Stanislavskij", mutuato dall'Actor's Studio, per cui gli attori si immedesimano nel personaggio dopo un complesso lavoro di psicotecnica; Karl Malden straripante, un esordio perfetto per Eli Wallach aspro ma romantico 'wop' (termine dispregiativo per definire gli italiani in USA; il personaggio di Silva Vacarro nell'edizione italiana diventa sivigliano); magnifica la ninfa bionda Caroll Baker con le sue risate argentine e i suoi singhiozzi, ma il personaggio che buca lo schermo rimane quello della stralunata aunt Rose - interpretata da un'adorabile Mildred Dunnock - che serve gli spinaci crudi perchè ha dimenticato di accendere i fuochi e va a trovare i degenti all'ospedale solo per mangiare i loro cioccolatini.
Fotografia semplicemente da urlo di Boris Kaufman.

35. Duello a Berlino (1943) di M. Powell & E. Pressburger

Straordinaria commedia drammatica frutto del più felice sodalizio artistico del cinema british. Una storia d'amicizia virile e inossidabile tra un ufficiale inglese ed uno tedesco, coraggiosa breccia nel muro di ostilità tra due nazioni che se le sono date di santa ragione a inizio secolo scorso; questa bellissima "anomalia" storica non passò inosservata, facendo piovere forti critiche nazionaliste (siamo nel '42, in pieno conflitto mondiale) alla premiata ditta Powell & Pressburger. Sceneggiatura e scenografia danzano in una stupenda combinazione artistica, dai colori scuri e ricchi degli interni rococò al cupo e desolato orizzonte di guerra nelle Fiandre, disegnato dal pennello dello stesso Pressburger in un bozzetto che finì perfino appeso alla Royal Academy. Indimenticabili interpretazioni per il trio al centro scena, con una leggiadra Deborah Kerr, un placido e nobile Anton Walbrook ed un superbo Roger Livesey dal timbro franco e baritonale. Consigliatissima la visione in lingua originale.

mercoledì 4 novembre 2015

Top 100 FILM da vedere (dal n. 40 al n. 38)

40. Manhattan (1979) di Woody Allen

Lo skyline di New York e un vecchio amico di nome Ike con le sue paranoie e idiosincrasie filiformi, il suo irresistibile humour yiddish. Tornare al Woody Allen dei tempi d'oro è sempre un'esperienza elettrizzante. E' riscoprire la magistrale sequenza, a livello di inquadrature, luci ed ombre del dialogo amoroso al Planetarium. E' rivivere - non semplicemente "riascoltare" - la Rapsodia in Blu di George Gershwin, magicamente, epidermicamente legata alla Grande Mela. E' assistere con magnifico sfinimento ai dialoghi cerebrali, caustici, davanti al tavolino di un locale, negli interni di un loft, lungo le strade sovrastate dagli imponenti grattacieli a specchio, bere con avidità ogni singolo twist verbale di questo piccolo genio e dei suoi gagliardissimi compagni di colloqui (la Streep, la Keaton, Michael Murphy). Nel celeberrimo incipit Allen incide sul marmo la sua innata vocazione metropolitana: "New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata". Una città in bianco e nero che pulsa dei motivi di Gershwin, affatto realistica ma anzi totalmente e magicamente reinterpretata dal cinema.

39. I cavalieri del Nord Ovest (1949) di John Ford

L'amore che nutro verso i film di John Ford è vasto come la Monument Valley, sconfinato come gli orizzonti rosseggianti dove galoppa lontana una fila serrata di ombre, cappello svolazzante e sciabola sguainata. In questo luminescente She wore a yellow ribbon, secondo della Cavalry Trilogy, Ford porta la sua inarrivabile epica al traguardo del colore, negli sgargianti tramonti magici, surreali dietro al granitico vecchio John Wayne, in divisa blu e bretelle bianche, inginocchiato in un piccolo cimitero tra le mesas. Coi baffi grigi, la rughina che scende dalla fronte, gli occhi illanguiditi dall'età (in realtà invecchiato ad hoc per la pellicola), qui Duke impersona un capitano - cuor di leone, pasta d'uomo - a pochi giorni dalla pensione; il vecchio saggio e coraggioso, pronto a sacrificare sè stesso per la patria e i suoi ragazzi, che trova perfino la soluzione pacifica, con calma senile, ai giovani irruenti tamburi di guerra. A lui si accompagnano i soliti vecchi compagni di set, l'erculeo e bonario Victor MacLaglen, l'ex primastella George O'Brien, il giovanotto tempestoso John Agar e l'inguantato biondino Harry Carey jr. Il quadro si completa con l'espressiva ed energica Mildred Natwick e l'oca giuliva Joanne Dru. Vorrei riguardare questi film centinaia e centinaia di volte, fino a impararli a memoria. L'ingresso trionfale di Ford nel mondo del colore è un'estasi visiva (a dire il vero c'era già arrivato con Il texano, ma il dislivello tra le due opere è notevole), le sgroppate delle sue scuderie hanno scolpito la storia del western come forse ahimè i tendini di quei poveri, magnifici cavalli lanciati a razzo giù per i dirupi.

38. Gli spietati (1992) di Clint Eastwood

Il western invecchia bene, come il whisky, ed Eastwood ne è la riprova. In realtà il suo film si presenta un po' come una sorta di pietra tombale, di epitaffio del genere; ha in sè qualcosa di definitivo, oltre ad essere uno straordinario omaggio ai suoi maestri (Leone in primis). Il vecchio West si spoglia dell'eroismo convenzionale, perchè non c'è nulla di eroico nell'ammazzare a sangue freddo. Il protagonista, l'ormai vecchio Will Munny, torna nella spirale della violenza dopo un cammino di redenzione tirato il più a lungo possibile, in memoria della moglie defunta ed in virtù dei due figli piccoli. Ma i soldi chiamano, il sangue pure. Assistiamo alla decostruzione di una integrità drammaticamente posticcia, una sovrastruttura morale che non appartiene al vecchio Munny ed al suo feroce passato. Notevoli le interpretazioni; per signorile perfidia svetta quella di Bob l' Inglese / Richard Harris (per lui una piccola ma pesantissima parte; egli rappresenta la profonda inutilità dell'arrivo trionfale, del gran personaggio e le sue eleganti colt, perchè spesso ciò che si reputa leggendario è sostanzialmente vano), e per repubblicana brutalità quella del tutore della legge Little Bill / Gene Hackman, forse nel ruolo migliore della sua onorata carriera. Forse il film sarebbe stato perfetto se Eastwood non avesse ceduto alla "necessità" di un finale canonico, che in fondo sembra sempre un po' rincuorante; esigenza di mercato o suo retaggio personale? Chissà.