lunedì 29 febbraio 2016

Top 100 FILM da vedere (dal n. 10 al n. 8)

10. Il buio oltre la siepe (1962) di Robert Mulligan

Capolavoro firmato da Robert Mulligan, colonna portante del "buon cinema" hollywoodiano, quello che per intenderci si è messo di traverso rispetto alle angherie della storia, nello specifico ad una società che negli anni sessanta era ancora profondamente segregazionista. Dal romanzo di Harper Lee non si poteva trarre di meglio; l'interpretazione di Gregory Peck è una delle cose più belle passate sugli schermi d'ogni tempo, immortale nella sua compostezza fiera, paterna, autorevole. Splendida l'atmosfera di mistero che accompagna l'infanzia dei fratellini Finch, adorabile l'amico tappetto con i braghini e la evve moscia Dill, interpretato da John Megna, personaggio basato sulla figura di Truman Capote.

9. Casablanca (1942) di Michael Curtiz

Io amo il cinema classico. Potrei finire così, con un commento lapidario, perchè tanto il mio è innamoramento, non critica cinematografica. Ma vorrei ad ogni modo raccomandarvi di passare prima o dopo da queste parti, in questa umida Casablanca a prendere un drink dal suo immortale "Rick Café Americaine" con le sue volute di fumo sulle languide note di "As time goes by". La stupenda, leggera finezza di Curtiz, che percorre ogni dettaglio dell'esotica scenografia e stringe su primi piani marmorei; forse la più felice sintesi cinematografica mai esistita ha radunato amore, guerra, storia, spionaggio, eroismo, jazz, Parigi, Humphrey Bogart e le sue piccole sigarette bianche, Ingrid Bergman e i suoi sguardi da cerbiatta, Claude Rains e quei furbi baffetti, gli occhi inquieti di Peter Lorre e uno scrigno infinito di altre meraviglie, tutte da riscoprire.

8. Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Ti lascia a bocca aperta, e ti riempie il cuore di malinconia. E' un viaggio nella metropoli futuribile più affascinante e misteriosa che Hollywood abbia saputo creare; una Los Angeles buia, piovosa, fumosa, compressa e immensa, pullulante di take-away cinesi, goticamente tecnologica, un gioco di neon ed antri bui, luci fluorescenti in una atmosfera malsana, quasi tropicale, dove suoni e canti orientali si fondono con del vecchio jazz e spot pubblicitari vengono scanditi da altoparlanti militareschi. Non poteva esserci una miglior resa dell'immaginario di Dick, della sua entropia lisergica, dei suoi mondi e dei suoi personaggi sempre al confine tra torpore e veglia, tra senno e follia, tra realtà e incubo. Non poteva esserci un Rutger Hauer più crudamente poetico e disperante. Di questo gigantesco spettrale luna park uscito dal genio di Ridley Scott, conserverò sempre nella mente un posto tutto particolare per l'attico di J.F. Sebastian e le sue creature che sembrano uscite da un quadro di Bosch. Da brividi l'atletica e feroce Daryl Hannah.

giovedì 25 febbraio 2016

Fuocoammare di Gianfranco Rosi


Lampedusa è sempre stata crocevia mediterraneo tra Africa e Europa; oggi è anche il paradigma della fallimentare visione politica comune europea e dell’ineluttabile cambiamento storico del nostro continente derivante dai flussi migratori.
Gianfranco Rosi, documentarista già premiato con il Leone d’Oro alla 70° Mostra del Cinema di Venezia per “Sacro GRA”, sembra aver colto al volo l’occasione di celebrare l’umanità tutta italiana di questo approdo indegnamente dimenticato dal mondo, costretto a tenere una terrificante contabilità dei morti in mare. Questo a dire il vero è ciò che il pubblico si aspetterebbe da un uomo che ha vissuto per due anni la vita isolana, partecipando con la sua cinepresa alle operazioni di soccorso; per Rosi tuttavia l’umanità non è solo accezione qualitativa di un atteggiamento di pietas, ma un contesto più ampio del vissuto che comprende azioni quotidiane, ritualità e gesti da osservare nella loro essenza naturale prima o al di là del loro significato.
La visione soggettiva di un documentarista non dovrebbe essere messa in discussione. Se tu vai al cinema per vedere “Fuocoammare” non vai a vedere un reportage giornalistico ma la visione personale e cinematografica di un uomo. Rosi ha maturato una sua comprensione di Lampedusa e questa ha voluto portare sul grande schermo; a Lampedusa ci sono Samuele con la sua famiglia profondamente sicula da una parte, mentre dall’altra ci sono gli immigrati, in pratica due mondi che non interagiscono e sembrano perfino non incontrarsi mai. Nel mezzo, ci sono persone straordinarie come il dottor Pietro Bartolo, in pratica l’unico punto di giuntura tra due storie parallele in forza della sua professione. Questa separazione non trae origine da nessun fondamento ideologico, né deriva da una sorta di saturazione da convivenza forzata; anche i lampedusani sentono le notizie degli sbarchi alla radio mentre tagliano le zucchine, perché non sono tutti “guardiani del faro”.
Il piccolo Samuele vive il solco delle tradizioni, tracce di una identità non imposta ma semplicemente vissuta con atavica tenacia, cerca di vivere il mare dei suoi avi nonostante gli faccia venire il mal di stomaco. Samuele guarda le vecchie foto di papà, ascolta i racconti della nonna in cucina, parla un dialetto talmente radicato da far storpiare in modo buffo il suo inglese a scuola. Samuele vive i residui di una identità selvaggia, aspramente mediterranea con le sue sortite notturne, le sue caccie con la fionda e il masculo rumoroso risucchio degli spaghetti col sugo di calamari.
Dall’altra parte dell’isola c’è il faticoso lavoro di uomini in tuta bianca e mascherina, in forza alla marina militare o al personale sanitario, operatori radiofonici e elicotteristi, che ogni giorno e ogni notte ricevono gli SOS dai barconi stracolmi di gente disperata, affamata, disidratata, morente. Le immagini di questi corpi martoriati dalla nafta, allo stremo delle forze, gli occhi delle donne che piangono i loro figli e i loro mariti perduti in mare sono devastanti. In tanti sostengono che a lungo andare, a forza di vederne così tanti ci si fa l’abitudine, ma invece non ci si può abituare mai, dice il dottor Bartolo con un filo di commozione. Ecco il grande oltraggio di Lampedusa, nella visione di Rosi; aver lasciato sole persone come questo medico dal cuore buono a reggere l’insostenibile peso della sofferenza e della morte. Vien da pensare che ogni scarico di responsabilità raggiunge e accumula il già greve peso sostenuto da questi uomini.
Realmente notevoli le inquadrature e il montaggio di Jacopo Quadri, ma è davvero impossibile prescindere dal portato di questa narrazione; l’Orso d’Oro a Berlino potrebbe sembrare anche una forma di riconoscimento a questo avamposto europeo, se non la goffa espressione di una specie di senso di colpa proprio dal paese che a tutti gli effetti è il “socio di maggioranza” dell’UE, ma al di là di ogni speculazione sulle logiche di premiazione questo documentario è un passaggio fondamentale nella attuale evoluzione del genere documentaristico, in un percorso di riabilitazione simile a quanto abbiamo già visto per le serie TV.

lunedì 22 febbraio 2016

Top 100 FILM da vedere (dal n. 13 al n. 11)

13. Le ali della libertà (1994) di Frank Darabont 

Rivedere questo film è una gioia per gli occhi e per il cuore. Frank Darabont è regista e sceneggiatore dalla filmografia contenuta ma che difficilmente sbaglia un colpo (suoi lo splendido Il miglio verde e l’affascinante trasposizione cinematografica di The Walking Dead). Insuperato nel genere "film carcerari", con un soggetto grandioso (c'è la mano del Re) e due attori che raggiungono qui l'apogeo della loro carriera, Tim Robbins e Morgan Freeman, "Le ali della libertà" è tra le tante cose un atto d' amore verso la cultura, verso l'arte che non può conoscere sbarre. Ciò si manifesta cristallinamente con la memorabile sequenza della diffusione via altoparlante delle Nozze di Figaro di Mozart. Questo film risulta addirittura al primo posto nella Top 250 di Imdb, quindi una classifica che rispecchia efficacemente il gradimento popolar-cinefilo, punto di giuntura tra il critico navigato e il consumatore di popcorn; beh, per quello che contano queste classifiche, vi dirò che io non ho molto da eccepire in merito.

12. Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese

Giù il cappello, questa è una storia criminale con pochissimi concorrenti all'altezza. Scorsese ha sparato una coppia d'assi pazzesca nei primi anni Novanta (a questo, si affianchi l'altrettanto strepitoso Casinò, cinque anni più tardi). Guardatevi queste due ore abbondanti di pellicola, ditemi voi se trovate qualche difetto.
La regia trova una incredibile sintesi di ritmo, energia e qualità dell'immagine, del sonoro, delle musiche. Perfino il doppiaggio va che è una favola; sincronizzatissimo, recitato all'altezza dell'originale, oltre al fatto che risulta naturalmente "tagliato" per l'edizione italiana, visto il marcato accento dei "mangiaspaghetti".
Joe Pesci è un attore per cui non stravedo, sarò sincero. Ma nella parte del gangster psicolabile, in Goodfellas come in Casinò, è stato gigantesco. DeNiro qui secondo me è un po' meno convincente dell'azzimato "Asso" Rothstein, mentre il posto più alto del podio spetta senza dubbio al protagonista, Ray Liotta, con la sua risata sguaiata, il suo sguardo plastico e glaciale che assume nell'ultima parte del film quell'aria strafatta, paranoica, senza dubbio l'apice della sua altalenante carriera. Amo il modo di fare e intendere il cinema di Martin Scorsese. La sua visione personale in grado di reinterpretare ogni tipo di materiale, di raccontare una storia senza mollarla mai, anzi più precisamente di farla raccontare ai suoi personaggi, diversificando i punti di vista.

11. Trono di sangue (1957) di Akira Kurosawa

Un magistrale Macbeth con katana e kabuto sullo sfondo del Giappone feudale. Un coro greco ci introduce al panorama desolato di nebbia e vento da dove con un flashback veniamo portati alle vestigia di una antica fortezza. Due cavalieri sperduti nell'intrico della foresta sotto la pioggia incontrano uno spirito con le sembianze di una vecchia diafana tessitrice, che predirà loro un glorioso e terribile futuro.
Così nel solco di una profezia che andrà inesorabilmente ad avverarsi vaticinio per vaticinio, cresceranno nel cuore del vulcanico Washizu il fuoco del sospetto e dell'alienazione, alimentato dai sussurri di una laconica Lady Macbeth in frusciante kimono. Kurosawa orchestra con grandezza una trama profondamente ancorata al modello scespiriano, che tra oscuri presagi e intrighi di palazzo giunge al grande assedio finale beffardamente architettato dal destino, così imprevedibile nelle sue stravaganti manifestazioni perfino nei circuiti chiusi delle profezie. Toshirō Mifune è semplicemente divino, anche nelle sue espressioni più forzate e caricaturali.

lunedì 8 febbraio 2016

Top 100 FILM da vedere (dal n. 16 al n. 14)

16. Il profeta (2009) di Jacques Audiard
Eccezionale. Una storia dura di carcere, corruzione e ineluttabilità dell’azione criminosa raccontata con splendida rarefazione da Audiard, sublimata dall’interpretazione di Tahar Rahim. Il giovane arabo Malik viene cooptato dalla mafia corsa capeggiata da César Luciani (un magnifico Niels Arestrup, colto in un florilegio di primi piani pensosi, dove campeggiano i solchi rugosi e il bianco ingiallito della sua chioma arruffata); dal primo omicidio commissionato nascerà la storia di formazione malavitosa del giovane, attraverso varie relazioni con i gruppi etnici presenti dentro e fuori dalla prigione. Oltre al ritmo serrato, Audiard ci regala la dimensione onirica delle visioni del protagonista, con un equilibrio e una armonia tali da non tradire in minima parte il crudo realismo della pellicola. Alcune sequenze restano scolpite dentro, come la prima uscita in permesso dalla detenzione, una mattina ancora buia al primo canto degli uccelli, una boccata d’aria fresca che riesce perfino a riempire i polmoni dello spettatore.

15. La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock
Che cosa fa di 'Rear Window' un capolavoro? Innanzitutto direi il topòs del cortile, perlustrato nella sua interezza da una cinepresa curiosa e mobile come gli occhi di chi scruta la scena. Un' ampia facciata bucata da finestre spalancate e balconi, una porzione di strada ai margini del campo, un modesto cortile. Un piccolo formicaio di vite che scorrono, focolari domestici di cui si percepisce solo qualche mozzicone di frase o le note di un malinconico pianoforte. In secondo luogo, direi la posizione privilegiata del protagonista - James Stewart in una tra le più valide interpretazioni della sua onorata carriera - costretto sulla sedia a rotelle da un incidente ma nell'invidiabile condizione di avere una devotissima ricchissima fidanzata (Grace Kelly, raffinata Venere di Hollywood, bella da far commuovere), un gran scialo di tempo libero e un binocolo puntato su questo microcosmo che è praticamente un open cinema dove in ogni finestra viene rappresentato un genere (la commedia, il romance, il drammatico, ovviamente il giallo). Questa posizione privilegiata è dunque immediatamente assunta anche dallo spettatore. Terzo: l'intrigo al centro della storia, in cui è facile immedesimarsi in virtù di questa stretta condivisione tra spettatore e protagonista, che si sviluppa con una tecnica di "ingolosimento" lento e progressivo, frame by frame. La presenza scenica di un grigio, bolso e circospetto Raymond Burr in questo senso è superlativa, direi wellesiana. Quarto: ovviamente, il deus ex machina. Alfred Hitchcock al pieno della sua maturazione artistica; oltre alla magnifica intuizione nella scelta del soggetto di Woolrich, il maestro 'apparecchia' tutto il profilmico con quella levità e quella accuratezza che solo i grandi cineasti possono avere. Ogni porzione di interno catturata racconta nel dettaglio la situazione, con perfetta sintesi, e in questi mini-set i protagonisti recitano il loro piccolo film muto.
Quinto: il sonoro, che come in ogni buon giallo deve pesare quanto la fotografia; qui abbiamo una sintesi di rumori e voci magistralmente "addestrate" a tenere viva la suspance, oltre alle languide note del Lisa's Theme di Waxman (che agli ascoltatori di vecchio jazz non può non richiamare in maniera sorprendente il classico standard "Where or when").

14. Amarcord (1973) di Federico Fellini
Emozioni a fior di pelle per la gioia di averlo visto in una sala cinematografica grazie al restauro della Cineteca di Bologna (lunga vita!). Un trionfo del colore, perfettamente connaturato alla vitalità della pellicola, catturato dalla fantasmagorica fotografia di Rotunno; questo signore di 92 anni ha pregiato della sua supervisione le recenti operazioni di restauro. Colpisce la vis comica di questo film, con la sua galleria di caratteristi irresistibili; penso alla sequenza degli insegnanti, pura essenza del miglior cabaret all'italiana. Il gusto dei sensi, dalla tavola al letto, che Fellini ha sempre celebrato liberamente; Roger Ebert, tra i primi ammiratori di Fellini, per strappargli di dosso la fastidiosa etichetta di "cinema d'autore" affermò provocatoriamente che il maestro riminese era più vicino a Russ Meyer che a Ingmar Bergman. Che dire poi della musica di Nino Rota. Sì, la musica più che "le musiche", perchè in questo film viene riproposta all'infinito la celeberrima nenia ipnotizzante, vagamente orientaleggiante, malinconica, in tutte le salse e in diverse varianti. E non vorresti ascoltare altro. E quell'atmosfera paesana ricreata magicamente, in un gioco di parodia e di fantasia, con gli accenti sui grandi falò equinoziali, le contrade di paese dove un avvocato cicerone (bellissimo volto cornacchiesco di Luigi Rossi) prova a raccontarci una storia ma viene continuamente spernacchiato da qualcuno (Fellini stesso). La poesia di una processione di lampare in mare aperto per salutare il transatlantico, gigantesco e luminoso come un mostro marino che emerge dal buio notturno. O di un casolare nei campi tra il frinire delle cicale dove un matto sull'albero grida "Voio una doooonnaa!" (eccezionale Ciccio Ingrassia, disconosciuto grande artista del nostro cinema), una nebbia avvolgente come la morte, la neve che chiama improvvisamente tutti fuori dal cinema dove si stava proiettando un film con Gary Cooper. Un film segnato dalle stagioni, con la medesima semplicità della vita di borgo. Si ride e si piange, si ama e si muore. Aggiungo in coda pure che Woody Allen trasse ispirazione da questo film per il suo 'Radio Days', che io amo moltissimo. Sì lo so sono un nostalgico... Che ci posso far?