martedì 15 marzo 2016

Top 100 FILM da vedere (dal n. 4 al n. 2)

4. Il tesoro della Sierra Madre (1948) di John Huston

Ladies and gentlemen, ecco a voi l' El Dorado del cinema d'avventura. Imperdibile gioiello di Hollywood, entra prepotentemente nella mia top ten personale; John Huston ci narra della febbre dell'oro a partire dalla vita grama di un trio di vagabondi americani che sbarca il lunario tra elemosina e lavoracci giù a Tampico, nello stato messicano di Durango. Tre vite in cerca di riscatto, tre avventurieri pronti ad affrontare un lungo viaggio attraverso la sierra incendiata dal sole, pullulante di tigri (così vengono impropriamente chiamati i felini messicani, puma o giaguari che siano, anche nello script originale) e banditi (un Alfonso Bendoya degno del miglior Sergio Leone), pur di scavare le ricche viscere dorate della montagna. Ma oltre alla mitica sabbia luccicante troveranno il démone della cupidigia, che può spingere fino alla follia... Interpretazioni a dir poco colossali; partendo dal gradino leggermente più basso del podio (ma parliamo sempre di quote siderali) metto Tim Holt dagli occhi bovini, apprezzatissimo rampollo dei magnifici Amberson di Welles, qui nel ruolo del buon ragazzone squattrinato dallo sguardo timido. Ad un passo dalla vetta il roccioso Bogart, magnificamente fuori dai suoi canoni; le prende, ha un caratteraccio e compie l'involuzione da hero a villain. In cima, paparino. Già, il signor Walter Huston attore di lungo corso, padre del famoso regista, qui incarna alla perfezione il vecchio cercatore d'oro, rude e legnoso ma buono e saggio, calmo quando c'è aria di tempesta. Secondo me, eccezionale. John Huston non è un regista che cerca la sorpresa visiva, ma intaglia come un navigato artigiano la trama, impreziosendola con il primato della recitazione. Efficace, lineare e probabilmente insuperabile nelle storie d'avventura.
3. Quarto potere (1941) di Orson Welles

Cosa si può fare con il bianco e nero! Illuso chi pensa che solo una vasta gamma di colori può creare magia; guardatevi il nero carico delle prime sequenze di Welles, guardate come si affina e tende a un grigio quasi seppia nel cuore del film, guardate l'ombra nei visi mentre il corpo è in luce, guardate come si illumina un grigio con la luce naturale che filtra da un abbaino, come brillano le gocce di pioggia nella notte buia. Pazzesco, arte pura. Già dalle prime sequenze, le inquadrature sono di una bellezza gotica e struggente. Il palazzo di Xanadu spicca in tutta la sua austera maestosità, protetto da un cartello: "No trespassing".
Lo stesso cartello apparirà alla fine; "Vietato l'accesso". Sì, perchè nel mezzo c'è la folgorante parabola di Charles Foster Kane, un uomo talmente pubblico, talmente sfacciatamente pubblico che non gli si vorrebbe riconoscere la dignità di un aspetto nascosto, di un segreto mai svelato. Un segreto di nome Rosebud, protetto dal significato più intimo quel cartello... Non spendo nemmeno una parola sull'eleganza scenica di Orson Welles; guardatevelo. Personaggi che non abbandoneranno la mia mente; Leland, il tutore, un moralista fallito, un grillo parlante alcolizzato. E Bernstein, il direttore del giornale, un profilo da grande teatro, da cabaret di classe. Ma sono solo due perle in un baule tutto da scoprire, ve l'assicuro.
Gustatevi ogni sequenza come i quadri di una ricchissima pinacoteca. Prendetelo oggi, non ve ne pentirete.
2. America oggi (1993) di Robert Altman

Per quale motivo Robert Altman ha un mercato home video così tisico in Italia? Senza la circolazione in dvd dei suoi grandi film corali, abbiamo una cultura cinematografica monca; ignoro se il problema sia la quotazione dei diritti d'autore o peggio una scellerata scelta editoriale, resta il fatto che film come Nashville e Short cuts sono pezzi da novanta, fondamentali nella loro unicità. Non so se esiste un altro regista in grado di dare spessore vero ad una ventina di personaggi contemporaneamente, a creare una ragnatela così perfetta di intrecci. Ogni storia si collega ad un'altra mediante un'infinita gamma di scorciatoie - shortcuts - nel disegno di un un quadro complesso e armonioso. Nashville è stato un magnifico fiore selvaggio, un archetipo imperfetto – anche se talvolta l'imperfezione può risultare più affascinante – di questo strabiliante maturo mosaico di vite che è 'Short cuts'; partendo da un soggetto minimalista per antonomasia (i racconti di Carver), Altman riesce a trasmettere allo spettatore quello straniante effetto ottico mediante il quale da vicino metti a fuoco i singoli tasselli, mentre allontanandosi solo di qualche passo prende forma una visione d'insieme. Bisogna prendersi "qualche passo" dalla visione di questo film; ti impegna le meningi anche dopo la visione, ti costringe ad afferrare le immagini che hai visto, a convogliare nel calderone mentale le frasi che hai sentito. Ti restituisce uno specchio frantumato della comunità urbana di Los Angeles (ma come ogni buona pellicola ha il dono dell'universalità, basta saper contestualizzare) con un utilizzo attento del paradosso, funzionale ad una inquietante verosimiglianza. C'è probabilmente un po' di esagerazione nel tranquillo weekend al fiume dei tre compagnoni che non si fanno guastare la pesca dal cadavere di una ragazza, in bella (e macabra) vista sul fondale; com'era forse esagerato il canto corale "It don't worry me" davanti al traumatico omicidio in Nashville. Per Altman la verità sembra non stare nel mezzo, ma agli estremi; la società si identifica meglio nella sua folle ed irresponsabile ricerca dell'entertainment ad ogni costo.
Emergono dalle dolenti singolarità di questo film le crisi coniugali e quelle tra amanti, dove la "scomoda" o "ingombrante" presenza dei figli esaspera le divergenze; i bambini sono presenze poco invadenti, come la timida discrezione di Casey, che investito torna diligentemenete a casa per entrare in coma, oppure genuine come il piccolo Chad che ipnotizzato dalla dolce, quasi suadente litania "tuo padre è un figlio di puttana" da parte della madre (la sempre straordinaria Frances McDormand), reagisce con un disarmante sorriso, scuotendo semplicemente il capo. O innocenti spettatori del degradante lavoro della madre, telefonista di una hot line. O ancora sono un informe gruppo di marmocchi, come i pargoli del duro poliziotto Gene Shepard (un eccezionale Tim Robbins), esserini vocianti senza la dignità di una personalità propria e distinta, che pure continuano festosi a gridare: "E' tornato papà". Proprio mentre su L.A. piove il disinfestante dagli elicotteri per combattere la biblica invasione di mosche 'medfly' (fatto realmente accaduto nel 1989 in California), le relazioni tra coppie si fanno a dir poco avvelenate; il sesso diventa un'arma, un atto di accusa, l'arena di uno scontro senza pietà tra uomo e donna. Anche nel dipingere la solitudine dei suoi antieroi emerge la grande vena artistica di Altman, nel catturare i momenti in cui mettono a nudo la loro disperata esistenza. La carezzevole tristezza di un locale jazz per Earl (splendidamente funereo Tom Waits), la lucida e dispettosa gelosia di Stormy (magnetico Peter Gallagher), i piccoli raptus della violoncellista Lori Singer, perfino l'angosciosa attesa di Andie MacDowell che per me ha l'espressività di una bambola di porcellana.
In un film ci sono generalmente dei 'personaggi', qui mi sembrano emergere più nettamente delle 'personalità'; non è solo un giochetto di parole, secondo me il tocco registico di Altman butta realmente gli attori fuori dal confortevole nido della recitazione, pare quasi spingerli ad una sorta di outing sul ciglio di un burrone (qualche giornalista lo definì il "dittatore benigno del set").

mercoledì 2 marzo 2016

Top 100 FILM da vedere (dal n. 7 al n. 5)

7. Casinò (1995) di Martin Scorsese

Qui siamo al top del gangster-movie, un testa a testa col Padrino di Coppola. Un capolavoro firmato Scorsese con una perfetta Sharon Stone, sfavillante dea di Las Vegas che scende a rotta di collo verso l'autodistruzione, e un Joe Pesci tosto, cattivo e brutto per davvero; ma vogliamo mettere a confronto questo piccolo bastardissimo gangster con quei patetici 'incattiviti ad hoc', muscolosi, tatuati, col naso da pugile e l'occhio bovino? Per tacere poi della glaciale flemma dello scagnozzo Frank Vincent; pare esca dallo schermo, pronto a spezzarti le rotule con la mazza da baseball, senza cambiare di un grado l'espressione facciale.
Tre ore che volano via come un corto; intorno al solidissimo (direi classico) DeNiro dalle cravatte fucsia gira il mondo della malavita dal marcato accento campano. Là dove i soldi viaggiano in valigetta, in una luccicante oasi artificiale nel bel mezzo di un deserto pieno di fosse tutte da riempire.

6. C’era una volta il West (1968) di Sergio Leone


Straordinarie le sequenze iniziali, dove il silenzio viene scandito dal giocciolìo di una cisterna, il ronzìo di una mosca, il cigolìo di una pala metallica. Sergio Leone ha creato il western perfetto, con un cast ed una colonna sonora semplicemente giganteschi; gli immensi scenari, tra canyon e strade polverose, si alternano a scene d'interno ricchissime, quasi barocche nei dettagli. Il viso duro dagli occhi dolci di Charles Bronson (ovvero del come un attore mediocre può scendere in una parte che gli è totalmente congeniale, rispondere alle esigenze di un regista quasi per un dono naturale), l'azzurro glaciale di Henry Fonda (qui a livelli astrali), la sensualità della Cardinale, il rude e romantico fuorilegge Jason Robards... C'è un'alchimia irresistibile, almeno per quanto mi riguarda, è un film che mostra un'estetica struggente, mai fine a sè stessa, una bellezza artistica immortale, che tocca magicamente le corde del sentimento.

5. Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder

Il declino del mondo del muto non ha mai avuto cantore più grande di Billy Wilder, nè musa più grande della fantomatica Norma Desmond che agghindata da Salomé scende nobilmente verso le telecamere, anche se stavolta son quelle della cronaca nera. Il soggetto è la forza segreta e magnetica di questa immortale black beauty del cinema. Uno scrittore mediocre di nome Joe Gillis (un ancora verde ma già magnifico William Holden) capita accidentalmente in una vecchia villa, un luogo dove "il tempo sembrava colpito da paralisi", "che si disfaceva in solitudine, lentamente". Una indimenticabile Gloria Swanson è la divina Norma Desmond che "camminava come una sonnambula sull'orlo della voragine del suo passato". Ed ha ragione da vendere Rober Ebert quando affermava che "la performance che conferisce risonanza emotiva al film rendendolo reale nonostante la sua gotica stravaganza" è quella di Von Stroheim, funereo e devoto maggiordomo dal passato insospettabile. Le esequie notturne della scimmia nella piccola bara bianca, la triste notte di capodanno in una lustra sala da ballo senza ospiti, il tavolo di poker con vecchie glorie del muto, definite da Gillis i "manichini di cera" (fa un certo effetto vedere Buster Keaton dire "passo" con voce cavernosa); quante sono le sequenze che fotografano alla perfezione questa stravagante e gotica tragedia in bianco e nero. Nella montagnola della mia classifica personale, lotta con pochi altri titoli per la vetta.