martedì 26 settembre 2017

Review: La ferrovia sotterranea

La ferrovia sotterranea La ferrovia sotterranea by Colson Whitehead
My rating: 5 of 5 stars

Sentinella a che punto è la notte?

Che lettura, signori e signore mie! Era da tempo che un romanzo non riusciva ad acchiapparmi così, da stare incollato febbrilmente alle sue pagine. Era dai tempi della mia lettura de L'impero del sole di Ballard che non mi immedesimavo in tal modo nel protagonista della storia, provando le sue stesse angosce e speranze; tanto di cappello all'autore, visto che qui parliamo di una donna (non mi era mai accaduto prima nella mia vita di lettore!). E consentitemi: che donna! La schiava Cora è un personaggio magnifico, non si piega alla brutalità, mai, eppure non si tratta mica di una vendicatrice alla Beatrix Kiddo, macchè. La sua determinazione, la capacità di risollevarsi ogni volta, la sua progressiva consapevolezza di cosa è e cosa non è la libertà sono tutti tratti umani cesellati di fino, denotano una attenzione particolare nell'autore, Whitehead, affinchè non esca fuori un'eroina poco credibile in grado di saziare subito la sete di giustizia dei più, che poi si tiene sempre dentro al cerchio perfetto dell'etica. Ecco, questa è la benedizione del sentir narrare questa storia da un afroamericano qual è Colson Whitehead: non c'è quel fastidioso, a volte infido, moralismo bianco. Anzi, il ritratto più complesso viene fornito non ai turpi schiavisti e negrieri, bensì agli abolizionisti i cui buoni intenti spesso coincidono con idee distorte sulla razza. Il parossismo di ciò viene espresso nel magnifico capitolo dedicato alla Carolina del Sud, uno di quei posticini accoglienti dove tutti sorridono e dove si cela il più agghiacciante dei progetti. C'è avventura e sgomento, ci si sente braccati inesorabilmente come Cora, si legge con il cuore in gola. Cosa di può chiedere di più a un romanzo?

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lunedì 4 settembre 2017

Review: The Hairy Ape

The Hairy Ape The Hairy Ape by Eugene O'Neill
My rating: 4 of 5 stars

Non sono mai riuscito a placare la mia sete di teatro e me ne rammarico non poco. Andare a teatro è anche una esperienza fisica, quindi assolutamente non paragonabile all'andare al cinema (che è facilmente sostituibile con le visioni home video); nessuna scappatoia ci viene dal teatro filmato il quale oltre a non avere logicamente una produzione sufficiente manca totalmente di sensorialità, altera completamente l'acustica diretta, sa irrimediabilmente di finto (fatta eccezione per le standup comedy, da sempre molto più televisive). Orbene, se lo spettatore non va al teatro, sia quantomeno il teatro ad andare verso il lettore: vorrei cominciare a leggere il teatro partendo da Eugene O'Neill, uno dei più illustri drammaturghi americani.
Tutto il teatro americano moderno mi incuriosisce particolarmente in quanto esso è stato una delle fonti primarie a cui hanno attinto gli sceneggiatori della mia Hollywood preferita, quella della golden age tra gli anni '30 e '40. Da qualcuno bisogna pur iniziare e O'Neill mi è sembrato il nome più logico. Nella sua pagina Gutenberg si trovano quattro plays (quanto mi piace la parola inglese; anche il francese pièce non mi dispiace, mentre l'italiano "opera teatrale" mi suona piuttosto ordinario) più un atto unico incorporato in una antologia. Ho deciso di iniziare la mia "lettura teatrale" da The Hairy Ape (in italiano conosciuto come La Scimmia Villana), scritto nel 1922. Già dal primo impatto si capisce che molta parte del testo è scritta in uno slang gustosissimo (ma direi abbastanza intuitivo per chi ha inglese upper intermediate), tutto da leggere a voce alta.
Sì, la lettura di una play teatrale deve per forza avvenire a voce alta. E' la minima concessione che si possa fare a un testo che non ha senso di esistere se non viene declamato. L'immaginazione può essere un discreto teatro alternativo, facendo partire il classico gioco mentale del dare un volto ai protagonisti senza alcun criterio temporale; così io ho potuto immaginare Yank con le fattezze di Tom Hardy, Paddy con il faccione di Anthony Hopkins, Long con il viso affilato di John Carradine, una diafana Mildred con il volto di una giovane Shelley Duvall. Ah, la zia brontolona aveva la faccia di Elsa Lanchester, la tata transfuga in Mary Poppins!
La scena si apre nella sala macchine di una nave, dove i fuochisti si stanno prendendo una pausa dal nutrire la rossa focosa fornace (fiery furnace). Hanno già messo mano alle birre e dato fiato alle canzoni marinaresche quando il grosso energumeno che tutti conoscono come Yank blocca la cagnara perchè lui deve pensare. E per farlo, ci spiega in più occasioni O'Neill, deve prendere proprio la posizione della celebre statua di Rodin. Il protagonista ci viene subito presentato come un pezzo d'uomo, la faccia sempre sporca di carbone, irascibile e totalmente privo di istruzione e buone maniere. Il suo parlare è colorito, zeppo di intercalari e di epiteti che affibbia ai suoi compari (lousy boob, yellow, old harp, bum...); parallelamente, l'anemica Mildred accompagnata da una cinica zia ci viene presentata come una ventenne snella, delicata, dal bel faccino pallido che malcela una sprezzante superiorità (disdainful superiority, espressione perfetta!). Mildred è la figlia di un ricco magnate dell'acciaio e sta compiendo una specie di praticantato sociale andando a curiosare tra gli emarginati, per conoscere le loro condizioni di vita - o più semplicemente per provare, come acutamente osserva l'acida ma perspicace zia, dei fremiti morbosi (morbid thrills). Fattasi accompagnare da un gruppo di ingegneri, la giovane entra in sala macchine proprio mentre Yank sciorina il meglio della sua scurrilità; sul filo del mancamento, la giovane fugge lasciando il suo bel commentino, un giudizio pesante come una pietra: Oh, the filthy beast! che giunge al povero Yank come un pugno allo stomaco.
Interessante come in realtà non sia originariamente hairy ape (scimmione capelluto) l'epiteto che diventerà poi il casus belli di una rappresentazione della lotta di classe; infatti l'espressione eponima sarà coniata dall'anziano compagno fuochista Paddy, il quale commentando l'accaduto dirà al furibondo Yank che la ragazza "era come se avesse visto una grossa scimmia capelluta fuggita dallo zoo". Come il mantice sul fuoco, anche i commenti e le battute salaci degli altri alimentano la rabbia il quale giura vendetta per l'affronto subito. C'è poi chi come l'altro collega Long vorrebbe dare la giusta dimensione alla causa, che non è affatto una questione privata ma una questione politica e di classe, giacchè Mildred altri non è se non una rappresentante di quei porci capitalisti (them lazy, bloated swine). Yank, solo con il suo furore e senza mai poter incontrare la diretta responsabile girerà a vuoto in questa sua chimera fino alla sua grottesca fine; qualcuno lo canzonò dicendo che in realtà si trattava di amore a prima vista, ma lui ebbe a precisare: "Love, hell! Hate, dat's what. I've fallen in hate, get me?"

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Review: Acqua nera

Acqua nera Acqua nera by Joyce Carol Oates
My rating: 4 of 5 stars

Forse sono un lettore criptomaschilista e ne dovrei fare ammenda, di quelli che inconsciamente leggono quasi sempre autori uomini; tuttavia quando mi capita di intercettare una autrice che mi piace, so che ella metterà piacevolmente a soqquadro il mio consumato fiuto libresco. Accadde con la magnifica e delicata prosa di Natalia Ginzburg, è accaduto ora anche con Joyce Carol Oates, prolifica autrice americana da me sempre sciaguratamente trascurata: un feeling che non si limita al piacere della lettura in questione ma cerca il suo spazio del mio animo letterario, ribaltando le carte sul tavolo. Questo romanzo breve è affilato come un rasoio, folgorante e geniale.
La morte è da tempi immemori un ingrediente essenziale del romanzo, il morire è relegato a sparsi climax narrativi; ben poco ci arriva dalle testimonianze del reale, sono momenti di cui non è evidentemente possibile una narrazione lucida. Là dove il vero annaspa, arriva la finzione; la Oates ha sublimato questa intensa sensazione nel racconto della giovane Kelly, una sorta di flusso di coscienza che rappresenta con efficacia il famoso disordinato film della tua vita che ti passerebbe davanti a pochi istanti dall' ultimo respiro. Kelly Kelleher è una ragazza in gamba, attivista dem, e il destino le ha fatto incontrare il Senatore a un party. Lui è il classico esempio di uomo intelligente e sportivo di mezza età, brizzolato e affascinante, del tipo I want it all, and I want it now. L'incontro è breve, lui sa già quel che vuole e carica nella sua Toyota nera la ragazza, un po' frastornata ma fondamentalmente eccitata e lusingata di essere stata "scelta" sebbene perfettamente consapevole che l'affinità politica sia la foglia di fico sopra una pulsione diciamo molto meno intellettuale.
Ma la guida del Senatore, completamente brillo, è troppo sicura di sè e l'auto finisce appunto in un pantano di acqua nera, sporca di bitume e olio. Kelly sprofonda lentamente, inesorabilmente in quel guazzo maleodorante, incastrata nell'abitacolo deformato dalla collisione; i suoi pensieri ripercorrono gli ultimi episodi della sua breve vita, cullando l'illusione che il Senatore - che nel frattempo è riuscito a uscire dall'auto scalciando via la ragazza che cercava di afferrarsi al suo calcagno - torni con i rinforzi a estrarla da quella trappola mortale. In un rovesciamento sarcastico della fiaba di Cenerentola, alla povera Kelly dell'uomo in disperata e disonorevole fuga non rimane che una scarpa. L'acqua riempie i polmoni della giovane e parallelamente la prosa si fa soffocante, in quella stupenda mimesi tra lo stile e l'immagine che solo le grandi penne sanno cesellare. Si infrange ogni sogno di una piccola, legittima, umana affermazione di sè, perchè lo spazio è stretto e c'è una sola via di fuga, perchè a salvarsi è sempre il più forte. E' questa la vera acqua nera, la putrida oleosa realtà di un mondo che marcisce nell'egotismo. Io sto con gli annegati.

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Review: Dio di illusioni

Dio di illusioni Dio di illusioni by Donna Tartt
My rating: 4 of 5 stars

Una storia che nonostante il fattaccio al nocciolo del plot non eccede mai in morbosità, non andando oltre la sfumatura noir, con uno stile dall' inconfondibile female touch nel disegno dei personaggi. La Tartt mette al centro la passione per il mondo Classico di un gruppo elitario di studenti sotto la guida del carismatico (ma flemmatico) professor Julian Morrow, una enclave nel classico college americano di feste e sballi assortiti. Nella cerchia dei sette giovani grecisti vi è anche il narratore Richard, proveniente da una famiglia non benestante della solare e volgare California; sarà lui a guidare il lettore nel vortice inesorabile che porta i ragazzi verso l'omicidio (non c'è spoiler, viene svelato sin dall'inizio dal narratore) e l' autodistruzione. Romanzo fiume che non si inghiotte in un sol boccone, una storia che viene forse dilatata al massimo quando il suo impasto starebbe in una mano; tuttavia la narratrice sa come accompagnare i suoi lettori nei meandri delle relazioni interpersonali, tenendosi sempre abilmente ai margini delle tinte forti e prediligendo il peso dell'impatto psicologico. Libro che potrà deludere tanto i giallisti quanto gli amanti del noir, in quanto accarezza i generi tenendosi però sempre a distanza di sicurezza, mentre potrà conquistare gli amanti degli intrecci sotterranei, in cui l'intelligenza sottilmente calcolatrice deve fare i conti con la banalità imprevedibile del caso.

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