Raoul Walsh

Raoul Walsh
New York (NY), 1887 - Simi Valley (CA), 1980

FILMOGRAFIA SCELTA:

Il ladro di Bagdad (The Thief of Bagdad), 1924
Perla del genere fantastico e avventuroso, più propriamente lo swashbuckler - letteralmente "furfante" - che in Italia viene incluso nel pentolone del "cappa e spada".
Protagonista assoluto l'istrionico "Re di Hollywood" Douglas Fairbanks, stella dalla fisicità esplosiva e dalla gestualità esasperata il cui tramonto coincise con l'avvento dei talkies (il protagonista di "The Artist" è a lui ispirato).
Spiccano in questa pellicola dalle fascinose nuance che 'catalogano' le sequenze (giallo seppia per il giorno e il deserto, rosa per certi interni, blu per la notte, verdastro per gli abissi) i costumi stravaganti e sfarzosi di Mitchell Leisen, così come le favolose scenografie di William Cameron Menzies, un trionfo di legno, tessuti, gesso e cartapesta tra architetture esotiche e sognanti, antri, giardini e profondità del mare.
E a questo proposito, nota di colore: la battaglia subacquea contro un improbabile ragno gigante degli abissi non potrà lasciarvi indifferenti.

Il grande sentiero (The Big Trail), 1931
Capolavoro dell'epica western all'albeggiare del cinema sonoro, con l'esordio in gran stile di un giovanissimo John Wayne in completino frangiato alla Kit Carson e ciuffo ribelle.
A lui si contrappone l'irsuto capocarovana impersonato dall'ottimo Tyron Power sr., "padre d'arte" di scuola marcatamente shakespeariana.
La regia di Walsh coglie, nella miglior definizione del 70mm, la vastità degli spazi, l'irrompere di battaglie e tempeste, così come la fatica di guadi, scollinamenti e traversate dove l'ingegno umano e la tenacia sono la spinta verso ovest, a bordo dei mitici prairie schooner.
E quando sembra che le forze vengano a mancare, beh, basta un po' della solita, immancabile retorica americana.
Per i cuori più sensibili, l'aitante imberbe Wayne sciorina un po' di romanticismo d'antan del tipo: "Un giorno, da qualche parte, i nostri sentieri si incroceranno ancora".
Chiude il sipario una resa dei conti spiccia nella tormenta di neve, e un happy ending della miglior tradizione, sotto una magnifica volta di gigantesche sequoie.

I ruggenti Anni Venti  (The Roaring Twenties), 1939
Classica, bellissima gangster-story sullo sfondo del ribollente decennio dei twenties, tra proibizionismo e locali speak-easy, dalla golden-age della criminalità organizzata al black tuesday del '29. Walsh corrobora l'intreccio con inserti semi-documentaristici, regalando vere e proprie lezioni di inquadratura (penso ai movimenti di cinepresa all'interno dei locali) oltre a far mostra di una gran verve nei dialoghi e nell'azione.
La trama: due reduci di guerra non trovano al rientro una occupazione onesta, e separandosi finiscono per ritrovarsi in un losco giro di contrabbando. Se Humphrey Bogart qui cominciava a risalire la china di una folgorante carriera, James Cagney è al top; interpretazione perfetta, elegante canaglia dai modi spicci, viso affilato un po' fanciullesco, vera "faccia d'angelo" dal destro facile.
Splendide le interpretazioni delle due star femminili, la giovane e dolce Priscilla Lane in contrapposizione alla energica Gladys George.
Questa pellicola è una innegabile fonte di ispirazione per i gangter-movies di Scorsese; inoltre, la scena in taxi del reincontro tra Eddie e Jean è il calco esatto di quella finale in Taxi driver.

Una pallottola per Roy (High Sierra), 1941
Un gangster movie d'alta scuola, sebbene risulti riduttivo relegare rigidamente al "genere" questa pellicola dagli intensi risvolti umani, condotta con incredibile mestiere da Raoul Walsh, regista essenzialmente "narrativo" che ama il retrogusto amaro nelle storie.
In un soggetto di paternità nobilissima (il grande John Huston e W. Riley Burnett, quello di "Giungla d'asfalto" e "Piccolo Cesare") Walsh tira fuori dal mazzo il primo ruolo di protagonista per Humphrey Bogart, vero e proprio asso pigliatutto.
Film di questo calibro andrebbero rispolverati, rivisti, studiati per la loro capacità di affascinare senza bisogno di strafare, senza il facile stratagemma dell'eccesso.
Protagonisti dinamici, dialoghi serrati a mezzo busto, pochi i primi piani.
Il viso delicato - ma mai evanescente - della Lupino ben si attaglia al tratto rude e i modi spicci di Bogart. La loro storia d'amore cresce con naturalezza e non appare affatto scontata.
Bella particina per l'inglese Henry Travers, colonnello delle vecchie commedie hollywoodiane, celebre per il ruolo dell'angelo di seconda classe ne "La vita è meravigliosa" di Capra.
La sequenza finale dell'inseguimento e dell'assedio è a dir poco spettacolare.

La storia del Generale Custer (They Died with Their Boots On), 1941
In un tempo in cui l'America aveva bisogno di eroi, Walsh ha ridato lustro alla storia del generale Custer con una agiografia certamente lucida e avventurosa, sebbene iper-retorica e eccessivamente imperniata sul protagonista.
Nel cinema cristallino e narrativo di Walsh accade di trovare pure il terreno scivoloso della retorica nazionale, e bisogna farsene una ragione. La telecamera indugia un po' troppo su Errol Flynn, superstar che non ammette vassalli attorno, qui nei panni di un eroe guascone bonario con quel filo di goffaggine amorosa che tanto inteneriva le casalinghe del Connecticut ed una inesauribile gamma di risorse strategiche (che tanto animava impiegati e operai dal Maine alla California); quasi un prediletto dagli dei il cui destino sorride gagliardo fino alla tragica gloriosissima fine. Forse la storia smentisce quell'aura leggendaria, ed oggi sappiamo che il sangue di tanti, troppi pellerossa grida da quelle terre...
A San Giorgio Custer si accompagna la sensuale e pienotta De Havilland dagli occhi tondi e umidi, oltre a un gruppuscolo di attori fin troppo secondari e al celeberrimo 7° Reggimento di Cavalleria che qui singolarmente pare un unico grosso animale stupido ma coraggioso, capace di ubriacarsi e "svaccare" tanto quanto gettarsi nella mischia Sioux (da cui il pomposo titolo originale They died with their boots on).
Nonostante tutto, un grande film. La tecnica cinematografica di Walsh non si discute, le scene di battaglia sono strepitose.



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